Il rilievo è pertinente alla fronte di un sarcofago raffigurante un thiasos marino al centro del quale campeggia una conchiglia rotondeggiante. La scultura è, probabilmente, presente nel 1762 nei “Fondi di Palazzo” e nel 1827 tra le opere, provenienti dal Recinto del Lago, destinate ad essere restaurate da Massimiliano Laboureur. Nel 1892 è infine ricordata nella sua attuale collocazione.
La composizione si struttura simmetricamente ai lati della valva entro la quale è raffigurata Venere accosciata ritraente la defunta. Il resto della superficie è densamente ricoperto da molteplici figure nelle quali sono visibili numerosi interventi di restauro.
Il motivo iconografico del thiasos marino si diffonde nelle rappresentazioni funerarie romane, a decorazione di sarcofagi, a partire dalla tarda età antoniniana. La particolare capigliatura di Venere, che richiama quella utilizzata nelle raffigurazioni di Giulia Domna, moglie dell’imperatore Settimio Severo, induce a inquadrare il rilievo tra la fine del II secolo e gli inizi del III.
Collezione Borghese, citato per la prima volta nell’Inventario del 1762, nei “Fondi di Palazzo” (p. 208); Inventario Fidecommissario Borghese 1833, C., pp. 45-46, n. 67. Acquisto dello Stato, 1902.
La lastra, pertinente alla fronte di un sarcofago, presenta un thiasos marino simmetricamente disposto, al centro del quale si trova una grande valva di conchiglia rotondeggiante, sorretta da due ittiocentauri. Essi presentano lunghi capelli di ciocche scomposte terminanti sulle spalle, quello di sinistra anche una folta barba, e appaiono rivolti con una leggera torsione del busto e del capo verso due Nereidi che sorreggono sul dorso. Le dee, dai lunghi capelli sciolti, sono coperte sul grembo da un drappo, che trattengono con una mano, mentre con l’altra poggiano sulle pinne laterali poste dietro le zampe equine. Le estremità della lastra si chiudono con le code degli ittiocentauri avvolte in spire, sulle quali poggiano alcune figure di Eroti alati intenti a suonare strumenti a fiato. Sul suolo sono presenti agli angoli inferiori due serpenti marini; seguono le figure di due Eroti alati che giocano, quello sul lato destro con una pantera, quello sul lato sinistro con un pistrice, alle spalle di un secondo felino. Al di sotto della conchiglia, parzialmente coperto dalle zampe equine, è un Erote a cavallo di un delfino, che brandisce una frusta. Al centro della valva è raffigurata Venere accovacciata in un gesto di pudicizia e affiancata da un piccolo Erote provvisto di una taeda, una fiaccola. La dea, seminuda, è rivolta verso destra e sorregge con la mano destra sollevata un manto che velificandosi si gonfia in un arco sopra il capo, cingendo delicatamente il braccio sinistro. La pettinatura, complessa, con scriminatura centrale, presenta capelli bipartiti al centro della fronte che scendono ai lati del viso con una serie di morbide ondulazioni parallele che coprono le orecchie. La composizione decorativa appare particolarmente densa e le numerose figure, fortemente restaurate, occupano l’intera superficie della lastra.
Il motivo del corteggio marino a fregio continuo, con una conchiglia centrale, si diffonde nell’iconografia funeraria romana dei sarcofagi a partire dalla tarda età antoniniana. I pochi esemplari che presentano Venere nella valva si possono datare fra la fine del II e l’inizio del III secolo d. C. L’immagine della dea deriva da un archetipo classico in cui era rappresentata la sua nascita, in questo caso riadattata alla destinazione funeraria con il ritratto della defunta. L’acconciatura della figura, definita “a tartaruga”, sembra infatti riflettere la moda diffusa da Giulia Domna, moglie dell’imperatore Settimio Severo, come si può vedere in un ritratto del Museo Nazionale Romano (Sapelli 2004, pp. 24-25).
Sul significato del tema del thiasos marino raffigurato nei monumenti funebri, il Buonarroti per primo, nel 1698, vede queste figure come corteo di esseri mitici che accompagna l’anima del defunto nelle isole dei Beati: “In molti sepolcri scolpirono de’ geni marini per corteggio delle anime, che andavano agli Elisi (p. 44). L’ipotesi ebbe ampio successo tanto da essere certificata nel 1942 dal Cumont secondo cui “plus transparent est le symbole de la navigation des âmes vers le Iles Fortunées, où une antique tradition plaçait le séjour des hèroes. Cette traversée a été choisie comme motif de décoration de nombreaux monuments funéraires“ (p. 166). La tesi viene poi ripresa dal Brandenburg, nel 1967 (p. 195). Obiezioni vengono rivolte al significato escatologico del thiasos marino dal Rumpf che individua in questi contesti mitici sofisticate allegorie di speranza di vita oltre la morte. L’autore sostiene l’assenza di una documentazione letteraria ed epigrafica che corrobori questa interpretazione, nonché l’utilizzo di tale tema iconografico anche in contesti non funerari (pp. 131-132). Altri autori ritengono il soggetto evocatore di messaggi edonistici visivamente veicolati mediante immagini di letizia, nudità ed erotismo e ipotizzano che la presenza dei Meerwesen nei sarcofagi intendesse alludere allo stato di beatitudine atemporale della dimensione oltremondana (Sichtermann 1970a, pp. 214-215; Sichtermann 1970b, pp. 236-238; Zanker, Ewald 2004, pp. 117-119, 132-134).
La Barringer, esaminando la figura delle Nereidi, afferma che esse possedessero una valenza benevola e che proteggessero durante i viaggi, sia letterali per mare che metaforici verso l’adilà (1995, pp. 54-55).
Il quadro ermeneutico più attendibile parrebbe verosimilmente contemplare entrambe le ipotesi, ovvero che le immagini del thiasos marino nei sarcofagi evochino tutte le complesse sfaccettature semantiche dell'orizzonte ctonio, da quelle concernenti il richiamo a una condizione idillica ultraterrena a quelle relative alla “morte per acqua”, intesa come percorso simbolico compiuto dall'anima verso le Isole dei Beati (Sichtermann 1963, p. 422; Quartino 1987, p. 52; Zanker, Ewald 2004, p. 133).
Il rilievo Borghese sembra potersi identificare, probabilmente, con uno citato, nell’Inventario del 1762, nei “Fondi di Palazzo”: “Bassorilievo con Baccanale di figure e cavalli marini con diversi putti” (p. 208). Nel 1827 si ritrova, menzionato come proveniente dal Recinto del Lago, in una missiva del Ministro Evasio Gozzani al Principe Camillo Borghese tra le opere affidate allo scultore Massimiliano Laboureur per essere restaurate (Moreno, Sforzini, 1897, p. 355). Nel 1833 nell’Inventario fidecommissario è ricordato nella sua odierna collocazione, la sala II, dove viene registrato nelle guide della Galleria a partire da quella di Venturi (p. 26).
La narrazione costruita secondo uno schema simmetrico, il morbido e attento modellato delle floride forme delle Nereidi e la tensione dei torsi degli ittiocentauri trovano stringenti confronti con un rilievo di soggetto analogo conservato nel Camposanto monumentale di Pisa e un secondo, proveniente dalla collezione Borghese, oggi al Museo del Louvre, datati alla fine del II d.C. (Rumf 1939, p. 24, n. 68; pp. 37-38, n. 93). Nella lastra Borghese la raffigurazione della pettinatura di Venere legata alla figura di Giulia Domna sembrerebbe confermare tale datazione.
Giulia Ciccarello