La statua colossale rappresenta un Satiro barbato in atto di brandire un bastone dal manico ricurvo usato dai pastori, con la destra levata, mentre avanza con la gamba destra e il braccio sinistro, intorno al quale si avvolge un lembo della nebride annodata al collo, è sollevato a metà altezza. La testa di restauro, come le numerose integrazioni di altissima qualità realizzate all’inizio del Seicento, sono state attribuite a uno scultore della cerchia del Bernini.
Il modello del Satiro Borghese e di altre opere in terracotta o pietra di analoga iconografia attestate prevalentemente in area tarantina è stato individuato nella statua bronzea colossale “in atto di combattere” di cui parla Livio, più tardi celebrata da Cicerone fra i monumenti più cari ai Tarantini, conservata nel tempio di Hestia e scolpita dalla scuola di Lisippo alla fine del IV- inizi del III sec. a.C.
Già parte della collezione Ceoli, nel 1607 la statua fu acquistata dal Cardinale Scipione Borghese per arredare palazzo Borghese in Campo Marzio; nel 1616 la scultura venne trasferita nella Villa di Porta Pinciana e collocata davanti alla facciata posteriore, dove rimase fino alla fine del Settecento, quando venne spostata nel Giardino del lago. Dal 1827 il Satiro, restaurato, è collocato in una nicchia nel salone d’ingresso a piano terra.
Già parte della collezione Ceoli, nel 1607 la statua fu acquistata dal Cardinale Scipione Borghese insieme ad altre esposte nel palazzo di via Giulia a Roma - come il Dioniso colossale (XLIX, salone) - per arredare palazzo Borghese in Campo Marzio, dove la descrisse nel 1613 il Francucci. È intorno al 1616 che la scultura venne trasferita nella Villa di Porta Pinciana e collocata davanti alla facciata posteriore (o della Prospettiva), dove la celebra nei suoi versi Ludovico Leporeo nel 1628 e più tardi la descrivono il Manilli e il Montelatici. Alla fine del Settecento venne spostata nel Giardino del lago, dove rimase fino al 1826, all’epoca dell’allestimento della nuova collezione nel Casino, depauperato dalla massiccia vendita delle opere a Napoleone Bonaparte: Evasio Gozzani ne predispose il restauro a opera di Massimiliano Laboureur o Antonio D’Este, con la raccomandazione di salvare le integrazioni antiche “di buono stile”. Dal 1827 fu sistemata nel salone d’ingresso a piano terra, in una nicchia, in pendant con il Dioniso colossale già Ceoli.
Numerose incisioni permettono di ricostruire la serie di restauri che hanno interessato la scultura, di cui è antico solo il torso con l’inizio delle cosce e delle braccia, a partire dal disegno di Andrea Boscoli, realizzato quando la statua non era ancora entrata in possesso dei Borghese, che documenta l’esistenza di integrazioni già all’epoca della permanenza a Palazzo Ceoli: il bastone, di dimensioni maggiori nelle incisioni di Boscoli e Marchuccius, in quella del De Cavalleriis (1594) appare di dimensioni ridotte, come quello attualmente visibile. Mentre alcuni studiosi riconducono il restauro alla fine del Cinquecento, Paolo Moreno lo colloca all’inizio del Seicento, ipotizzando l’intervento di uno scultore della cerchia del Bernini, in ragione dell’altissima qualità delle integrazioni, ipotesi accolta anche da Herrmann Fiore, che intravede nel passo del Davide di Bernini forti assonanze con la nostra statua. Per quanto concerne nello specifico la testa, è possibile ravvisare evidenti analogie con la testa di Giovane Satiro su busto antico al Museo di Roma, anch’essa un tempo parte della collezione Borghese, in cui tecnica di lavorazione, tratti somatici del volto e capigliatura suggeriscono l’intervento del medesimo scultore (Di Gioia 2002), oltreché con il “Fauno sorridente” nella collezione Giustiniani, datato all’ultimo quarto del Cinquecento e di incerta attribuzione (Androsov 2001, p. 241, n. B1).
La statua colossale, di un terzo maggiore al naturale, rappresenta un Satiro barbato in atto di brandire un pedum, un bastone dal manico ricurvo usato dai pastori, con la destra levata; la gamba destra è avanzata, la sinistra arretrata, il braccio sinistro, intorno al quale si avvolge un lembo della nebride annodata al collo, a guisa di scudo, è teso a metà altezza, a bilanciare il gesto aggressivo del busto che gira verso destra. La testa di restauro riproduce l’inclinazione originaria, come suggeriscono i riccioli della barba conservati sul torso antico. La pelle ferina allacciata al collo, la torsione del busto e la posizione delle gambe trovano perfetta rispondenza con una terracotta tarantina di II sec. a.C., mentre stringenti analogie si riscontrano anche con un frammento in pietra tenera che riproduce un combattente e una seconda terracotta in peggior stato di conservazione del Museo Nazionale di Taranto (Moreno 2002, pp. 162-164, figg. 343, 345, 349), e con una matrice fittile di torso speculare agli esemplari tarantini, rinvenuta in una bottega di Eraclea (Policoro, M.N. Siritide, inv, 36250); tali esempi sono citati da Moreno come prova del carattere tarantino del possibile archetipo. Quest’ultimo sarebbe dunque una creazione ellenistica ancora nel solco della tradizione lisippea, come si evince dalle assonanze iconografiche con il Satiro effigiato sul monumento coregico di Lisicrate ad Atene, a sua volta influenzato dall’Alessandro di Macedonia adolescente sorpreso da un leone nel mosaico di Pella, riproduzione musiva di un gruppo bronzeo dell’artista sicionio.
Un satiro colossale forse affine all’esemplare Borghese può essere riconosciuto poi nel torso colossale della collezione Farnese (MANN, senza inv., Pafumi 2010).La figura del satiro combattente si distacca dalla connotazione comica e buffonesca tipica di tali creature semiferine e deriva probabilmente dalla suggestione degli episodi scenici all'interno di drammi satireschi. Tale schema iconografico è successivamente replicato in scene bucoliche, come nel rilievo di sarcofago con Pan e ninfa al Museo Pio Clementino (inv. 849; Spinola 1999, p. 180, n. 11).
Moreno propone di riconoscere l’archetipo in una statua bronzea colossale “in atto di combattere” di cui parla Livio, forse uno dei promachoi lasciati nel 209 a. C. da Fabio Massimo alla città di Taranto e visti ancora da Strabone (Geographica, VI, 3, 1) e probabilmente lo stesso Satiro poi celebrato da Cicerone (In Verremactio II, IV, 60, 135) fra i monumenti più cari ai Tarantini, conservato nel tempio di Hestia e scolpito dalla scuola di Lisippo alla fine del IV- inizi del III sec. a.C.
Nel complesso stile e tecnica dell’opera Borghese suggeriscono una esecuzione in età adrianea.
Jessica Clementi