Nel Cinquecento la scultura, già integrata e rielaborata, è conservata presso il Palazzo Della Valle a Roma. In seguito l’opera passa alla collezione Medici e infine alla famiglia Ceoli, dove rimane fino alla vendita del 1607 quando viene ceduta alla famiglia Borghese. Nella tenuta, Iacomo Manilli e Domenico Montelatici, nel 1650 e nel 1700, la ricordano all’interno del Primo Recinto del Giardino, come decorazione di una delle fontane. A metà del Settecento è trasferita nelle sale sotterranee, denominata “Un Narciso nudo di marmo a sedere sopra un Delfino similo”. Tra il 1819 e il 1832, anni in cui ci si adopera per ricostituire/”rigenerare” la raccolta nella palazzina, gravosamente privata dalla vendita delle opere della collezione a Napoleone Bonaparte da parte del cognato Camillo Borghese, Antonio D’Este fu incaricato di un secondo restauro della scultura. Il progetto fu ideato dal Cavalier Evasio Gozzani, ministro del principe Camillo, con un attentissimo studio sulla disposizione dei pezzi nelle sale: “N.B. Proggetto del Fauno ideato dalla chiara memoria del defonto Sig.r Cavalier Gozzani. Al ricordato Fauno seg.to n.4 si è tenuto proposito più volte con il sud.o fù Cavalier Gozzani col consenso di qualche Letterato, per indi porre - terminato che sia questo grazioso lavoro - nella Sala del Gladiatore Combattente, la quale conserva ancora il condotto dell’acqua, che introdurrebbesi nel labro da bagni, facendola sortire dalla bocca del delfino, come sortiva prima, e con ciò nobilitare il centro di una Sala con questo oggetto nuovo, il quale allontani al più possibile ogni memoria; e faccia centro ove una volta era occupato da un Capo dei Capi di opera della antichità” (ASV, Arch. Borghese, b. 1007, fasc. 301). Il restauro di Antonio D’Este interessa la coda dell’animale e la base con le onde. La scelta di questi nuovi interventi è di integrare le sculture con attributi iconografici facilmente riconoscibili, avvicinandole il più possibile al modello originario. Ci si adopera altresì nel cercare una disposizione nelle sale secondo una rigida simmetria, con lo scopo di ricostituire l’originaria armonia tra l’apparato decorativo e le opere. Il progetto è quello di collocarla al centro della sala VI a sostituzione della grave perdita della statua del Gladiatore - definito da Antonio D’Este “Capo dei Capi”. Tuttavia Antonio Nibby nel 1832 la menziona nella sala VII (definita dall’autore camera V), sopra un piedistallo ornato di chimere e grifi, evocando inoltre il mito della trasformazione dei pirati in delfini per volontà di Dioniso, narrato da Ovidio nelle Metamorfosi (Met. 3, 582-630), di cui il delfino della scultura Borghese potrebbe rappresentare un richiamo iconografico. È ancora Nibby, nel 1838, a citarla, sempre nella sua attuale sistemazione, denominandola questa volta “giovane che cavalca un delfino, forse Palemone, figlio di Atama e d’Ino”. Secondo il mito, Era, adirata per la nascita di Dioniso, figlio del tradimento di Zeus e Semele, decide di punire sua sorella Ino, colpevole, insieme al marito Atamante, di aver allevato il piccolo Dio. La potente dea porta alla pazzia i due coniugi spingendoli a uccidere i propri figli. Ino, rinsavita dalla follia, tenta di salvare il figlio Melicerte gettandosi in mare con lui. I due vengono, per volontà di Poseidone, trasformati in divinità marine con i nomi di Leucotea e Palemone (Met. 3, 313-315; 4, 416-542). Nel 1893 Adolfo Venturi nomina il giovane satiro come Arione, citarista greco gettato in mare dai marinai della sua nave e salvato da un delfino, così come ricorda Erodoto nelle sue Storie (Storie, I, 23-24). La scultura raffigura un giovane satiro nudo in ginocchio che cavalca un delfino su una massa d’acqua. Il corpo del giovane presenta una leggera torsione verso destra sottolineata dalla tensione dei muscoli della schiena e dalla posizione degli arti. Il braccio sinistro e la gamba destra sono protesi in avanti, mentre il braccio destro e la gamba sinistra retrocedono. La figura poggia secondo una precisa distribuzione del peso sulla gamba sinistra flessa all’indietro arrivando a toccare l’acqua. La punta del piede sinistro non è rifinita, in particolare l’alluce e il dito medio rispetto a quelli del destro, che privo di peso, poggia inerte sulla base. Il torso partecipa a questo equilibrio, i muscoli del petto e del bacino e anche la spalla sinistra sono inclinati verso destra e la colonna vertebrale asseconda la curvatura in avanti e verso sinistra. Una leggera tensione si avverte anche nei muscoli del collo che segue la torsione del capo. La mano destra afferra la pinna caudale del delfino, mentre la sinistra trattiene la bocca spalancata dell’animale. La testa del satiro è volta verso sinistra, lo sguardo è divertito e la bocca semiaperta lascia intravedere i denti. Il giovane è raffigurato con le orecchie a punta, unico elemento che ne ricorda la primordiale natura ferina. All’altezza dell’osso sacro è visibile un piccolo foro, che lascia ipotizzare l’applicazione di una coda mediante un perno, ma potrebbe anche trattarsi di un adattamento del gruppo scultoreo come fontana. Il delfino ha dimensioni minori rispetto al suo cavaliere. La bocca aperta mostra denti aguzzi, mentre la coda, squamata, è ritorta verso destra a spirale e termina con due pinne, una rivolta in basso e l’altra in alto, afferrata dal satiro. La scultura gode di una buona notorietà già dal XVI secolo. Sembra che a essa si sia ispirato Lorenzo Lotti per la raffigurazione di Giona nella Cappella Chigi della Chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma, su disegno del maestro Raffaello Sanzio, cui si può riferire un modello nel Victoria and Albert Museum di Londra, nel 1520. Un’altra affinità d’ispirazione si riscontra nella fisionomia dei giovani della Fontana delle Tartarughe di Piazza Mattei a Roma, di Taddeo Landini, realizzata su disegno di Giacomo della Porta nel 1581. Il volto del satiro si ritrova, inoltre, in un disegno attribuito a Michelangelo Buonarroti o alla sua cerchia, oggi conservato al British Museum (Kleiner, 1950, pp.22-26). Per la composizione iconografica un rimando si trova nel gruppo scultoreo di Satiro che cavalca un delfino di Giovanni Angelo Montorsoli, realizzato nel 1540 per ornare il Giardino di Palazzo Doria a Genova. Della stessa epoca e provvista di una tensione simile è una statua identificata come Narciso, conservata al Victoria & Albert Museum di Londra, rielaborazione di un frammento antico da parte di Valerio Cioli nel 1560. Gli studi sulla scultura Borghese sono molteplici: Walther Amelung è il primo nel 1900 a interpretare la scultura come decorazione di fontana e datarla ai primi secoli dell’Impero da un originale ellenistico rielaborato. L’autore confronta la scultura Borghese con una piccola opera conservata nella Glyptothek di Monaco (nr. 111; vedi Fig. 2 secondo Clarac 749 A, 1841). Un fanciullo, riconoscibile dalla Nebris come un satiro, siede sul fianco di un delfino, che lo trasporta tra le onde. Gli studi di Arnold Walter Lawrence, nel 1927, e di Bernhard Schweitzer, nel 1929, confermano, per l’archetipo, una datazione all’inizio dell’ellenismo, non oltre il III secolo a.C. per il trattamento della capigliatura e la resa giovanile del volto. Le rappresentazioni di delfini affiancati ad altre figure sono molto diffuse, sia nelle arti figurative che nella più antica produzione fittile del VI secolo a.C. Nell’immaginario greco la figura del delfino evoca sentimenti di lealtà e amicizia verso gli umani e gli dei, soprattutto nelle insidie del mare, come ben testimoniato dalla numerosa letteratura. Plinio racconta che un fanciullo di Puteoli aveva stretto amicizia con un delfino. Per recarsi a scuola ed attraversare la Baia lo chiamava “Simo Simo” (“Naso all’insù”, epiteto legato probabilmente alla forma del muso dell’animale) l’animale accorreva e lo portava in groppa. Dopo la morte per malattia del fanciullo, il delfino lo attese vari giorni invano prima di morire anch’esso per il dolore. (Nat. Hist. IX, 25) Dal punto di vista iconografico l’accostamento di Satiro con delfino sembra piuttosto raro, il gruppo scultoreo Borghese risulta essere una composizione alquanto isolata.
Giulia Ciccarello