Il dipinto proviene da un probabile acquisto diretto o dono dell’autore al cardinale Scipione Borghese. Il fiorentino Antonio Tempesta si rese celebre proprio per i suoi dipinti raffiguranti scene di caccia e battaglie, dedicati a illustri personaggi della corte pontificia e del patriziato romano. In questo dipinto, raffigurante una caccia al leone, alla tigre e all’elefante, emerge con evidenza lo stile essenzialmente disegnativo del pittore e, allo stesso tempo, la sua abilità nel ritrarre le piccole figure in costume.
Salvator Rosa cm. 49,8 x 61,2 x 7
Roma, collezione Scipione Borghese (?); Inventario, 1693, Stanza IV, n. 33; Inventario, 1790, Stanza III, n. 22; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 28, n. 39. Acquisto dello Stato, 1902.
Verosimilmente pervenuto al cardinale Scipione Borghese per acquisto o commissione diretta, oppure per dono da parte dell’autore, che lavorò per il porporato tra il 1615 e il 1616, il dipinto è documentato con certezza nella collezione Borghese a partire dall’inventario del 1693: in esso risulta “un quadro di due palmi in circa in rame con una Caccia dentro con homini a Cavallo con una tigre morta sotto ai piedi del Cavallo del No 202 cornice dorata del Tempesta”. Inclusa nell’inventario del 1790 circa e in quello fedecommissario del 1833, questa Scena di caccia su rame è un tipico esempio della pittura di Antonio Tempesta, molto apprezzata dai contemporanei, tanto che Giovanni Baglione scrive che “le sue opere di cavalcate, di cacce, e di battaglie, per la grande, e bella diversità, e tante forme d’uccelli, e di fiere, sono sopra modo mirabili, e mostrano l’eccellenza di questo secolo” (G. Baglione, Le vite de’ pittori, scultori, architetti ed intagliatori dal pontificato di Gregorio XIII del 1572 in fino a’ tempi di Papa Urbano VIII, Roma 1642, p. 315). Non a caso sono numerose le opere con scene di caccia e di battaglia che il pittore fiorentino eseguirà, soprattutto per l’aristocrazia romana, nei primi decenni del Seicento (cfr. F. Gatta, Alcuni inediti o poco noti dipinti a chiaroscuro di Antonio Tempesta dalle collezioni nobiliari romane del Seicento, in “Studi di Storia dell’arte”, 31, 2020, pp. 103-118).
Nel rame Borghese la battuta di caccia ad animali esotici quali elefanti, tigri e leoni si svolge in secondo piano e sullo sfondo, mentre in primo piano si vede un gruppo di personaggi a cavallo vestiti all’orientale e la tigre morta a terra così come è descritta nell’inventario del 1693. L’artista raffigura sapientemente una serie di tecniche impiegate per catturare gli animali – così il leone viene stanato con il fuoco delle torce accese e poi trafitto con le lance, mentre l’elefante viene accerchiato per essere anch’esso infilzato – e introduce realisticamente anche alcuni cacciatori morti perché sbranati dai felini nel tentativo di difendersi. Un’attenzione al dettaglio che ricorda la serie di acqueforti dello stesso Tempesta raffiguranti i Diversi modi di cattura degli uccelli oggi all’Albertina di Vienna, in cui vengono appunto illustrate accuratamente diverse tecniche di caccia.
L’attribuzione al Tempesta, accolta all’unanimità dalla critica, trova pieno riscontro con i modi del pittore, che secondo quanto affermato dal marchese Vincenzo Giustiniani sono intrisi di “furore di disegno e d’istoria dato dalla natura” (cit. in Baroncelli 2011). La proposta di datazione dell’opera agli anni di attività dell’artista presso il cardinale Borghese deriva dai pagamenti resi noti da Paola Della Pergola, nei quali tuttavia non sono menzionati i soggetti dipinti per l’insaziabile committente.
Negli stessi anni Scipione Borghese era intento a sistemare le opere in suo possesso nella Villa fatta edificare fuori Porta Pinciana, dove trovarono ampio spazio i numerosissimi paesaggi con figura della sua collezione, in un dialogo ideale con l’ampio parco circostante.
Pier Ludovico Puddu