La scultura è esposta a pendant con una seconda, finora ritenuta dagli studi moderna e realizzata su disegno di Luigi Canina. La sfinge, con corpo da leone e volto umano femminile è ritratta sdraiata con le zampe anteriori distese in avanti. Indossa il copricapo tipico dei faraoni, il nemes, che si adagia sul petto ed è decorato al centro della fronte dall’ureo, il serpente spiraliforme protettore dei faraoni.
L’opera è da ritenere una creazione romana, di epoca imperiale, ispirata a un modello di stile egittizzante.
Collezione Borghese, citata probabilmente per la prima volta nel giardino da Manilli 1650, dove si ritrova ancora nel 1826 (Moreno Sforzini 1987, pp. 350, 361, 363). Inventario Fidecommissario Borghese 1833, C., p. 52, n. 165. Acquisto dello Stato, 1902.
Iacomo Manilli e Domenico Montelatici nel XVII secolo ricordano numerose statue di sfingi a decorazione del giardino della Villa Borghese, in “Pietra di Egitto o Granito Orientale”, tra le quali si può supporre si possano identificare le due sfingi poste oggi nella sala VII (Manilli 1650, pp. 22, 120, 122, 124-125; Montelatici 1700, pp. 77, 79, 317).
In un rapporto, del 1826, indirizzato da Evasio Gozzani al Principe Camillo Borghese, la scultura, posta “sotto l’archi che portano l’acqua al Lago”, compare tra le opere destinate ad abbellire le sale rese spoglie dalla cessione alla Francia del 1806. Nella Quinta Nota dei restauri affidati agli scultori Labourer e d’Este, nel 1828, tra gli oggetti presenti nello studio di Antonio d’Este in attesa di essere restaurati, sono presenti ”Due Sfingi di Basalte”. L’intervento, descritto in una lunga appendice alla Nota, viene pagato “230 scudi” (Moreno Sforzini 1987, pp. 350, 361). Nel 1832 Antonio Nibby ricorda entrambe le sculture già posizionate nella attuale sala VII (Nibby 1832, p. 120).
La sfinge è esposta a pendant con un’altra, di dimensioni maggiori (inv. CCXI), anch’essa citata nella Quinta Nota e dalla quale si distingue “la Sfinge antica, oggi Inv. CCIV, è riconoscibile da quella moderna, perché è detta di minor grandezza e per i particolari integrati” (Moreno, Sforzini 1987, p. 363). Altri autori le ritengono entrambe di dubbia autenticità. Il Nibby le ritiene “moderno lavoro imitate però dall’antico” (1832, p. 120) e così il Platner (1854, p. 255). Il Venturi riferisce moderna solo quella di dimensioni maggiori, ritenendola realizzata su disegno dell’architetto Luigi Canina (Venturi 1893, p. 44), medesima ipotesi sostenuta da De Rinaldis nel 1948 (1948, p. 30) e da Della Pergola (1951, p. 20). Il Faldi, che accetta l’attribuzione al Canina, nota che tale ipotesi non sia però sostenuta da alcuna documentazione (Faldi 1954, pp. 44-45).
La nostra Sfinge, più piccola dell’altra, è raffigurata con il corpo possente accosciato, le zampe anteriori adagiate in avanti e le posteriori ripiegate, con la coda ravvolta al fianco destro. Nelle zampe sono ben visibili gli artigli incisi. La testa, di fisionomia antropomorfa femminile, è eretta e coperta da un copricapo di stoffa, il nemes, decorato da righe parallele orizzontali, che scende in due bande sul petto. Al centro della fronte è posto un serpente avviluppato, l’ureo, emblema del supremo potere, che caratterizzava il copricapo di divinità e faraoni. Nel volto, i grandi occhi dai tratti ben marcati sono di forma allungata; il naso è ben pronunciato e le labbra, dischiuse in un accenno di sorriso, presentano gli angoli rialzati. Il morbido modellato e la levigatezza della superficie esaltano la potente massa muscolare.
L’opera ripete, in epoca romana, il tipico modello iconografico egittizzante, con testa femminile e corpo di leone accovacciato.
Il motivo iconografico della sfinge conosce una storia millenaria originata in Egitto, dove figura come simbolo della potenza del faraone e della sua manifestazione terrena. Da qui si diffonde nel Vicino Oriente e poi in tutto il bacino mediterraneo, acquisendo anche un ruolo funerario e ctonio, soprattutto in Grecia e in Etruria. In ambito romano, dopo la vittoria di Ottaviano ad Azio, nel 31 d.C. e l’annessione all’Impero dell’Egitto, si diffuse a Roma un genere decorativo evocativo di figure e temi egizi adattati al potere imperiale (Capriotti Vittozzi 2006). L’“egittofilia” coincide spesso con la volontà del principe regnante di consolidare la propria figura secondo una regalità teocratica di tipo orientale. Ne sono testimonianza i numerosi santuari che sorsero nella capitale, tra cui il noto Iseo Campense nel Campo Marzio. Da tale luogo provengono, probabilmente, gli esemplari di sfingi conservate ai Musei Capitolini (Agnoli 2010, pp. 72-77, n. 1), nella collezione Lancellotti (Vigna 2008, pp. 239-240, nn. 80-81) e quelle presenti al Museo del Louvre (Martinez 2004, pp. 724-725, fig. p. 724, nn. 1507-1509).
Giulia Ciccarello