Il busto raffigura Narciso, il giovane punito dalla dea Nemesi con un folle amore per se stesso, di cui racconta Ovidio nelle Metamorfosi. Il fanciullo è nudo e reclina dolcemente la testa verso la spalla sinistra sollevata.
La scultura, inquadrabile nel II secolo d.C., è da considerare una delle numerose repliche note di un originale attribuito allo scultore Policleto attivo nel V secolo a.C.
Collezione Borghese, citato per la prima volta dal Nibby nel Portico (1832, p. 25). Inventario Fidecommissario Borghese 1833, C., p. 41, n. 3. Acquisto dello Stato, 1902.
“Ma costui sono io! l'ho capito, l'immagine mia non m'inganna più!
Per me stesso brucio d'amore, accendo e subisco la fiamma!
Che fare? Essere implorato o implorare? E poi cosa implorare?
Ciò che desidero è in me: un tesoro che mi rende miserabile.
Oh potessi staccarmi dal mio corpo!”
(Ovidio, Metamorfosi, III, versi 463-467)
La scultura è ricordata dal Nibby nel Portico, nel 1832, posta sopra una colonna di granito come una “mezza figura incognita” (p. 25). Il Venturi, nel 1893, la nomina invece come un “Efebo nudo” (p. 11).
Il frammento, adattato a guisa di busto, raffigura un giovane nudo con la spalla sinistra sollevata e il capo reclinato verso essa. I tratti fisionomici sono quelli di un fanciullo con occhi allungati e palpebre rilassate. Sul capo i capelli sono trattati in corte ciocche mosse che incorniciano la fronte.
L’atteggiamento di languido abbandono ha portato a ritenere si tratti della raffigurazione di Narciso, il giovane punito dalla dea Nemesi che lo fece innamorare della propria immagine riflessa in una fonte, come è narrato da Ovidio nelle Metamorfosi (III, versi 413-467).
Il soggetto statuario, che si conserva in più di quaranta repliche, può essere ricondotto a un archetipo attribuito allo scultore Policleto, attivo nel V secolo a.C.
La scultura, come già osservato dal Lauter (1966 pp. 109-110), è da considerarsi pertinente al II secolo d.C.
Giulia Ciccarello