Questo dipinto, destinato certamente alla devozione privata, raffigura il volto di Cristo ed è stato avvicinato dalla critica per la sua impostazione alla scuola dei Carracci che tra la fine del XVI e i primi anni del XVII secolo elaborò questo particolare prototipo iconografico.
Salvator Rosa (cm 68 x 54,5 x 6).
Roma, collezione Borghese, 1790 (Inventario 1790, Stanza II, n. 7); Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 34. Acquisto dello Stato, 1902.
La provenienza di questa teletta è ancora ignota. Segnalata per la prima volta in collezione Borghese nel 1790, l'opera fu erroneamente attribuita dall'estensore dell'inventario a Jacopo Palma il Vecchio, nome inspiegabilmente accolto sia negli elenchi fedecommissari del 1833, sia da Giovanni Piancastelli nel 1891. Nel 1893 Adolfo Venturi avvicinò il dipinto alla scuola di Giovanni Lanfranco, parere non condiviso da Roberto Longhi (1928) e da Paola della Pergola che nel 1955 pubblicò questa Testa di Cristo come opera di un seguace di Annibale Carracci, notando una certa affinità con il volto di san Giovanni Evangelista della pala Landini, eseguita dal bolognese nel 1593 e attualmente conservata presso la Pinacoteca di Bologna (cfr. Posner 1971). Secondo la studiosa, infatti, la tela sarebbe opera di un seguace "che si ispira a quel periodo di attività del maestro", eseguita intorno alla metà dell'ultimo decennio del XVI secolo. In effetti, questa Testa mostra una certa familiarità con alcuni modelli elaborati nella bottega di Annibale, in particolare con i volti di alcuni apostoli affrescati nella cappella Herrera a Roma, eseguiti dal fedele allievo Francesco Albani su disegno del maestro. L'espressione severa inoltre richiama alla mente il viso di Dio Padre dipinto da Albani (Barcellona, Museo de Arte); e quello dell'apostolo Giacomo attribuito dalla critica ad Annibale (Madrid, Museo del Prado).
Antonio Iommelli