Questa stravagante Testa di Satiro, che colpisce per l’immediatezza del tratto, la vivacità del segno e per una pennellata rapida e larga, mostra tutti i caratteri tipici delle opere di Pietro Paolo Bonzi - noto come il Gobbo dei Carracci - pittore specializzato in nature morte, esperto secondo le fonti nel maneggiare il pennello ma poco incline al disegno.
La natura ferina del satiro, evidenziata dalla malformazione della bocca e dallo sguardo strabico, è collegata all’uva e ai pampini dipinti sulla testa, resa come un’unica massa con i capelli e le orecchie. La tonalità dei colori e il tratto vibrante ma nervoso di quest'opera sembrano esprimere in pittura quel senso di euforia, ebbrezza e giovialità indotto dal nettare di Bacco.
Salvator Rosa (54.7 x 40.2 x 4.6 cm).
Roma, collezione Borghese, 1790 (Inventario 1790, Stanza IV, n. 48); Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 25. Acquisto dello Stato, 1902.
Questo raffinato dipinto su carta è segnalato per la prima volta in collezione Borghese nell'inventario del 1790, attribuito dall'estensore del documento a Pietro Paolo Bonzi detto il Gobbo dei Carracci, pittore nato a Cortona che si formò artisticamente a Bologna, frequentando una volta a Roma l'accademia privata dei Crescenzi. Il soggetto raffigurato - una Testa di satiro coronata di pampini - indusse Adolfo Venturi, Matteo Marangoni e Aldo de Rinaldis a confondere quest'opera con il Bacchino malato di Caravaggio (inv. 534; cfr. Della Pergola 1955, p. 48, n. 74; Della Pergola 1959, pp. 76-77, n. 112), errore generato dalle sommarie descrizioni con cui i due dipinti furono di volta in volta registrati negli inventari ottocenteschi. Nonostante la sua prima attribuzione al Bonzi, nel 1833 questa Testa fu catalogata come opera di 'autore incognito' (Inventario Fidecommissario, 1833, p. 25), avvicinata poco dopo da Adolfo Venturi (1893, p. 107) e da Roberto Longhi (1928, p. 191) alla scuola dei Carracci. Tenuto conto di una Natura morta, resa nota nel 1917 come dipinto autografo del Gobbo dei Carracci da Matteo Marangoni (pp. 22-24), Paola della Pergola non esitò a riesumare il nome del Bonzi, pubblicando il dipinto con tale attribuzione nel catalogo della Galleria Borghese (1955, p. 48, n. 74), nonostante qualche anno prima Longhi (1950, p. 37) avesse espressamente scartato tale riferimento. Nel 1956, confermando quanto ipotizzato dalla studiosa, sir Denis Mahon espose il dipinto nell'importante mostra sui Carracci, organizzata a Bologna presso l'antico palazzo dell'Archiginnasio.
L'immediatezza di questo dipinto sembra rievocare il ricordo tramandato da Giovanni Baglione sul nostro pittore, descritto dal biografo come un artista assai esperto nel maneggiare i colori, che esprimeva "bravamente con gran forza e gran vivacità assai naturale" che però "se [...] havesse havuto più disegno haveria assai operato, perche la consuetudine di ritrarre dal vivo gli faceva maneggiar bene i colori" (Baglione 1642, p. 343).
Antonio Iommelli