La Venere di Urbino di Tiziano è la fonte di ispirazione per questo dipinto, forse replica di un’opera di Lambert Sustris. Dal celebre prototipo, viene ripresa la sensuale figura della donna distesa in primo piano, con le scene domestiche sullo sfondo, dove si intravedono una giovane donna che suona la spinetta e un’altra che guarda all’interno di una cassapanca.
Cornice di tipo “Salvator Rosa”. 144 x 205 x 8 cm
Roma, cardinale Scipione Borghese (?) (Inventario ante 1633, Corradini 1998, p. 454); Manilli 1650, p. 110; Inventario 1693, Stanza VI, n. 28 (Della Pergola 1964); Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 25. Acquisto dello Stato, 1902.
Il dipinto è generalmente considerato una variante della più celebre Venere di Urbino di Tiziano, versione domestica del modello rappresentato dalla Venere di Dresda - la nuda addormentata e giacente en plein air, adagiata su un drappo più o meno prezioso o direttamente a terra - già ampiamente diffuso e fatto proprio dalla produzione pittorica lagunare e di terraferma.
Il primo piano è interamente occupato da una donna sdraiata su un letto dalle bianche coltri su cui sono sparse alcune roselline; ha i capelli biondi e ricci, raccolti e intrecciati, ed è coperta solo da un leggero drappo, pure bianco, su cui poggia la mano destra; l’anulare reca un piccolo anello; il braccio sinistro è adagiato sul cuscino arricchito da una striscia di stoffa dorata, e ornato di un bracciale tempestato di pietre preziose. Subito alle sue spalle, a formare una sorta di sipario, un tendaggio verde lascia scoprire lo sfondo. A destra, l’ambiente si apre verso l’esterno con un’elegante loggetta tripartita; vi si affacciano due figure (una coppia) contro un cielo rosso di tramonto, su cui si staglia, al centro sul davanzale, un vaso con un piccolo arbusto. Altre piccole figure abitano lo spazio del dipinto: vicino alla parete decorata, sembra, con corami rossi, una fanciulla vestita di bianco sistema il contenuto del cassone (nuziale) assistita da una figura femminile in piedi, mentre subito accanto un’altra giovane donna è intenta a suonare una spinetta osservata da una bambinetta.
Il dipinto è dunque ben caratterizzato per particolari significanti, e come per la più celebre Venere di Urbino, allude a un contesto matrimoniale e alle virtù della giovane sposa che Venere, in primo piano, accompagna nella strada amorosa e sensuale pur nell’ambito di una dimensione domestica, qui arricchita dall’elemento della giovane alla spinetta, di buona e riservata educazione.
Per quest’opera, diversamente considerata prodotto della bottega tizianesca o copia ottocentesca di una tela già in collezione Borghese, occorre subito precisare la strettissima relazione con un’altra pressoché identica conservata oggi al Rijksmuseum e attribuita a Lambert Sustris: simile per composizione e dimensioni, differisce dal nostro esemplare per lievi varianti del volto e per il particolare del drappo bianco sul corpo nudo della donna, qui decisamente più coprente, solo accennato nella versione olandese. Quest’ultima, acquistata sul mercato inglese nell’immediato dopoguerra, secondo le più antiche testimonianze della sua presenza in Inghilterra e nel più recente catalogo di vendita, proverrebbe dal palazzo Borghese. Non è noto il momento in cui avvenne questa definitiva uscita dalle raccolte di famiglia, ma quasi certamente entro la metà dell’Ottocento, quando è già attestata nelle raccolte inglesi.
È dunque per colmare la lacuna di quest’opera, considerata evidentemente difficile da sostenere, che potrebbe esserne stata commissionata una copia. Questa tesi è stata sostenuta principalmente da Wethey, secondo il quale la tela di Amsterdam sarebbe il quadro originale e l’esemplare attualmente in collezione Borghese la copia ottocentesca. Della Pergola (1955), che scriveva all’indomani dell’acquisto del dipinto da parte del Rijksmuseum, non considerava questa possibilità, e riconduceva entrambi i dipinti alla stessa mano, ovvero a Lambert Sustris: curiosamente si direbbe, ma evidentemente non le era nota la supposizione di provenienza Borghese dell’opera di Amsterdam.
Eppure, almeno un’altra ipotesi potrebbe essere praticabile. Le differenze, benché lievi, tra le due versioni, la realizzazione tecnica, molto poco ottocentesca, e la qualità dell’esemplare Borghese non lasciano percorrere con agio la strada di una esecuzione ad hoc in occasione della vendita, ciò che rappresenterebbe anche un unicum, per quanto ci è noto. È più probabile invece che proprio già nel corso del Seicento del dipinto, riferito al contrario a Tiziano per tutto il secolo, si fosse deciso di realizzare una copia, comunque documentata nel 1700 da Montelatici, attivando quel meccanismo registrato in pochissime occasioni (la Cena in Emmaus di Caravaggio, i tondi di Albani) ma soprattutto, e non a caso, per alcune delle più celebri tele tizianesche. Montelatici ricorda infatti in villa una copia di Venere che benda Amore (“ricavato dall’originale del Titiano che si conserva nel Palazzo in Roma del Signor Principe”, p. 258), una di Amor sacro e profano (“ricavata dal suo originale che si conserva nel Palazzo in Roma del Signor Principe”, p. 288), e, nella medesima stanza, ricorda: “si come da un originale del medemo Titiano, che si conserva nella Galleria di S. Ecc. in Roma, vien ricavato un altro quadro, di Venere, che qui si vede, giacente sopra un letto” (p. 282). Come se di Tiziano, e delle sue Veneri, non si potesse fare a meno in nessuna delle due principali sedi della collezione di famiglia: né in villa, dove era per lo più conservata la raccolta di sculture antiche e moderne; né nel palazzo di Ripetta, dove a questa data è concentrata in massima parte la raccolta di dipinti, ammirata da curiosi e intendenti d’arte.
Le più antiche testimonianze di questa Venere giacente restituiscono ulteriormente l’importanza del dipinto per i Borghese.
Fin dal 1650 Manilli attesta la presenza nella villa fuori porta Pinciana, in uno dei camerini del primo piano, di “due quadri grandi di Venere”: e cioè “quello dove una giovane sta suonando una Spinetta, è di Tiziano; del quale si crede, che sia l’altro in faccia, dove un Cagnuolo dorme a’ i piedi della Dea”. Si tratta a tutta evidenza di due repliche o versioni, riferite da Manilli con diversa certezza a Tiziano, della cosiddetta Venere di Urbino (Firenze, Uffizi). Di certo la prima non ne costituisce una copia: si evidenzia infatti l’elemento della giovane che suona la spinetta, assente nell’originale, dove invece compare il cagnolino che dorme ai piedi della donna, citato da Manilli nel secondo dipinto di Venere e con ogni probabilità disegnato da Antoon Van Dyck durante il suo soggiorno romano (c. 114r).
Tra Sei e Settecento nella collezione Borghese i due dipinti di Venere sono concepiti à pendant l’uno dell’altro, oltre che per il soggetto e l’autore, forse anche per le dimensioni. Nel 1650 sono collocati, appunto, nello stesso camerino (la piccola galleria, oggi sala XI) della villa fuori porta Pinciana, dove forse si trovano fin dal 1633 (Corradini). Una volta trasferiti al palazzo di Ripetta, l’inventario del 1693 li registra come due sopraporta nella medesima stanza (la sesta), citati come “un quadro bislongo grande una Donna Nuda sopra un letto con fiori sopra il letto con cinque altre figurine una che sona il Cimbolo e l’altra che guarda dentro un Cassa” (n. 333, pp. 458-459) e “un quadro grande di una Venere nuda sopra il letto con un Cagnolino che dorme con due altre figure con la mano tra le coscie alto di 5 palmi” (n. 322, p. 458).
Mancando nei documenti inventariali una descrizione dettagliata, non è sempre agevole seguire le tracce delle due Veneri, che sembrano essere ricordate insieme, nel medesimo ambiente ma con diverse attribuzioni, ancora fino al 1833 (inventario fidecommissario, nn. 29 e 30). La Venere con il cagnolino, cioè la versione più prossima alla Venere di Urbino, non sembra più essere ricordata e risulta dispersa, mentre ancora oggi in collezione è presente un dipinto rispondente alla descrizione della seconda Venere, con la giovane alla spinetta e altre figure sullo sfondo.
Originale, replica o copia? Se, come sembra, deve escludersi la copia ottocentesca, rimangono le due prime possibilità: potrebbe essere una replica con leggere varianti, ma seicentesca, realizzata in un momento imprecisato, forse tuttavia nell’ambito della medesima operazione di “duplicazione” dei più importanti pezzi della quadreria, da un pittore che ben sa imitare l’originale, interpretando la maniera e le tipologie tizianesche (nel senso più ampio del termine) con disinvoltura; oppure è l’originale, il dipinto cioè presente in collezione almeno dal 1650 (ma forse anche prima), decisamente attribuito a Tiziano nelle testimonianze più antiche, e poi, dalla critica moderna, prima rigettato come autografo, quindi dato a Sustris.
Da tempo, e almeno dalla fine del Settecento, era stata messa in dubbio l’autografia tizianesca dell’opera (catalogo 1790, De Rinaldis, 1937; inventario 1790; inventario fidecommissario 1833), liquidata da Venturi (1893) come “copia con molte varianti” della Venere di Urbino e ascritta genericamente alla scuola veneziana. Commentando il passo, nelle sue note manoscritte Giulio Cantalamessa (1907) riconosceva la derivazione dall’esemplare più famoso ma si diceva non certo di una tecnica esecutiva veneziana. L’attribuzione del nostro esemplare a Lambert Sustris, pittore olandese che gravita intorno agli anni Cinquanta nella bottega di Tiziano, era stata avanzata per primo da Wilde, seguito da Peltzer che lo datava intorno al 1550, e poi da Della Pergola (1955).
Allo stato attuale delle ricerche non è semplice sciogliere questo nodo: il dipinto costituisce comunque ulteriore testimonianza della straordinaria importanza che Tiziano (i suoi modelli, le varianti e le repliche uscite dalla bottega, che, specialmente negli ultimi decenni di attività del maestro, rielabora tipi, repertori, modelli, proponendoli a un mercato avido e sempre vivo) ebbe all’interno dell’orizzonte culturale in cui si colloca, nel tempo, la raccolta Borghese. Ancora nei primi anni dell’Ottocento, questa fama era ben viva. Gli amatori d’arte che seguivano le indicazioni di Prunetti, avrebbero potuto trovare in villa “una Venere colca di Tiziano di ottimo Colorito” (I, 1808, p. 242) e nel palazzo di città, nella stanza delle Veneri tra “le più singolari … quella colca di Tiziano” (II, 1811, p. 16).
Maria Giovanna Sarti