L'opera, probabilmente ceduta nel 1608 dal cardinale Paolo Emilio Sfondrati a Scipione Borghese, costituisce un vero e proprio enigma interpretativo. Secondo la critica, fu dipinta da Tiziano intorno alla metà del secondo decennio del Cinquecento, commissionata dal veneziano Niccolò Aurelio, il cui stemma appare sulla fontana assieme a quello della moglie Laura Bagarotto.
La tela rappresenta due donne, ritratte ai lati di un antico sarcofago istoriato, su cui poggia un putto alato che con la mano rimesta l’acqua al suo interno. Questa figura, così come il soggetto del quadro, è fortemente connessa al tema dell’amore - qui espresso nella sua duplice natura, sacra e passionale - raffigurato allegoricamente dalle due figure femminili, simbolo dell’Amor sacro e dell'Amor profano. Tale dualità, presente anche nel paesaggio riprodotto sullo sfondo, è inoltre espressa sulla sinistra da una veduta montana e sulla destra da un villaggio lacustre.
Da sempre la ricchezza di questi simboli e di molti altri elementi iconografici ha spinto gli studiosi a cercare molteplici chiavi di lettura, fornendo nei secoli varie interpretazioni. Attualmente si tende a privilegiare il significato matrimoniale dell'opera, ossia l'esaltazione delle qualità della sposa perfetta, qui raffigurata splendidamente vestita nella sua dignità pubblica, ricca di attributi nuziali consoni al suo livello sociale, e al tempo stesso nuda e ardente di vero amore, quale dovrà apparire al suo sposo nella sfera del privato.
(?) Roma, cardinale Paolo Emilio Sfondrati, ante 1608; (?) Roma, collezione Scipione Borghese, 1608 (Della Pergola 1955); (?) Roma, collezione Scipione Borghese, 1613 (Francucci 1613); Roma, collezione Scipione Borghese, 1620 ca. (Cappelletti 2014); (?) Roma, collezione Borghese, 1644 (Wethey 1975); Roma, collezione Borghese 1648 (Ridolfi 1648); Inventario 1693, Stanza V, n. 2; Inventario 1700, Stanza V, n. 2; Inventario Fidecommissario 1833, p. 12. Acquisto dello Stato, 1902.
In esposizione temporanea alla Galleria Nazionale d'Arte Antica per la mostra "Raffaello, Tiziano, Rubens. Capolavori dalla Galleria Borghese a Palazzo Barberini"
Considerata l’assoluta mancanza di documenti relativi alla sua esecuzione e al suo ingresso nella raccolta Borghese, da sempre l’opera rappresenta un vero e proprio enigma da risolvere. Giunta a Roma in un momento imprecisato, sarebbe appartenuta al cardinale Paolo Emilio Sfondrati e da questi ceduta il 20 luglio 1608 a Scipione Borghese assieme ad altri settantuno dipinti di cui però non è stato ancora rintracciato l’elenco. Tale ipotesi, suggerita da Paola della Pergola (Eid. 1955) e adottata da quasi tutta la critica, rivela però diversi punti deboli, a partire dal documento di acquisto rogato a Roma nel 1608 che riferendosi ai settantadue quadri come opere 'dei principali pittori di questa città' (cfr. Orban 1920), sembrerebbe escludere qualsiasi collegamento con il dipinto veneziano.
Le varie ipotesi circa la provenienza e la presenza dell'opera in collezione Borghese sono state debitamente discusse da Sara Staccioli (1995) che non esclude né l'arrivo del dipinto da Ferrara in seguito alla devoluzione della città nel 1598, né che l'opera sia stata acquistata dopo la morte di Scipione avvenuta nel 1633. Inoltre, secondo la studiosa, solo a partire dal 1648, anno della pubblicazione de Le maraviglie dell'arte di Carlo Ridolfi, che l'Amor sacro e l'Amor profano è segnalato senza alcun dubbio presso la raccolta Borghese, mentre il poema di Scipione Francucci del 1613 e il diario di John Evelyn del 1644 farebbero sorgere ancora dei dubbi. Come spiegato dalla Staccioli (1995), se si leggono attentamente le rime del Francucci ci si accorge che la contrapposizione solitamente citata tra la "Beltà disornata" e la "Beltà ornata" è invece tra la "Beltà disornata" e la "Barbarica pompa", espressione tra l'altro da riferirsi alla Giuditta di Giovanni Baglione (Galleria Borghese, inv. 15) e non al quadro del cadorino. Lo stesso dicasi del racconto di John Evelyn, in cui lo scrittore scrive di aver ammirato nella 'Chamber of Nudities' due Veneri di Tiziano, riferendosi forse - a detta della studiosa - a due diverse composizioni del cadorino e non alle due donne ritratte nell'opera in esame come invece ha sempre sostenuto Wethey (1975).
Ad ogni modo, non c'è dubbio che a tale altezza il dipinto si trovasse già nella raccolta pinciana come ben documenta il cd. 'Taccuino italiano' di Antoon Van Dyck del 1620 ca. (Londra, The British Museum, 1957, 1214.207; sul soggiorno romano dell'artista cfr. Rangoni 2018) dove su un unico foglio l'artista tratteggiò velocemente due tele di Tiziano, ossia Venere che benda Amore sempre di collezione Borghese (inv. 170) e, con un inchiostro più scuro, l'Amor sacro e l'Amor profano (cfr. Cappelletti 2014).
Se i dubbi e le supposizioni sull'arrivo e la presenza del dipinto in casa Borghese sono sostanzialmente ancora numerosi, al contrario la critica è concorde nel ritenere che la tela sia stata eseguita dal Vecellio al termine della sua fase giovanile, intorno alla metà del secondo decennio del Cinquecento. Con ogni probabilità, infatti, il quadro fu commissionato nel 1515-16 (cfr. Lucco 2013) dal veneziano Niccolò Aurelio, segretario del Consiglio dei Dieci, in occasione del suo matrimonio con Laura Bagarotto, i cui stemmi compaiono rispettivamente sul fronte del sarcofago e sul fondo del bacile d’argento. Il riferimento a tale unione sarebbe inoltre espresso dalla fibbia e dalla coroncina di mirto indossati dalla fanciulla seduta a sinistra, chiari attributi dell’amore coniugale.
Come ampiamente dibattuto, il fulcro centrale della composizione è costituito dall’evidente contrapposizione delle due figure femminili fisionomicamente identiche: una vestita, in atto di guardare verso lo spettatore; l’altra nuda, che le si rivolge in atteggiamento di esortazione, ritratta con una lampada in mano, simbolo dell’ardore amoroso e attributo di Venere. Al centro, appoggiato sul bordo del sarcofago ornato da un fregio classico, appare Cupido che con la mano rimesta l’acqua al suo interno: con tale gesto, il dio rinnova ogni cosa, mutando ad esempio la morte in vita come sembra alludere la tomba qui utilizzata non a caso a mo' di fontana. Sullo sfondo, infine, si apre un vasto paesaggio tipicamente veneto, abitato da uomini e animali, caratterizzato da un borgo turrito sulla sinistra e da un villaggio che sorge su un lago sulla destra, ennesima contrapposizione a cui pare voglia partecipare anche la natura.
Sull’opera esistono diverse ipotesi interpretative, il cui numero ben esprime il complesso ed ermetico ambiente culturale vissuto da Tiziano, impregnato di quella cultura neoplatonica largamente diffusa nei circoli culturali veneziani e apprezzata dal Maestro grazie al legame con il poeta Pietro Bembo. In tal senso, la strada più autorevole è stata quella tracciata da Erwin Panofsky (1939) che interpretò Cupido come simbolo dell’unione tra cielo e terra e le due figure femminili quali allegorie della Venere ‘celeste’ e della Venera ‘terrena’; contrariamente invece a Edgar Wind che nel 1958 interpretò la donna vestita come Pulcritudo (la Bellezza) e quella nuda come Voluptas (il Piacere). Secondo altre interpretazioni, il soggetto rimanderebbe a Polìa e Venere, protagoniste del sogno di Polifilo raccontato nell’Hypnerotomachia di Francesco Colonna (Hourticq 1917); oppure a Venere e Medea, le cui vicende sono narrate nell’Argonautica di Valerio Flacco (Wickhoff 1895). Dal canto suo, Italo Palmarini (1902) fu il primo a tentare di identificare le due giovani donne con la bella ritratta nella Donna allo specchio del Museo del Louvre (Parigi, inv. 755) che secondo lo studioso sarebbe Laura Dianti, amante di Alfonso I d'Este, rappresentata nella versione Borghese sopra la cd. 'fonte d'Ardenna', una sorgente d'amore descritta da Matteo Maria Boiardo nell'Orlando innamorato. Al momento la critica tende a privilegiare il significato moraleggiante dell’opera, ossia l’esaltazione delle qualità della perfetta sposa, qui raffigurata splendidamente vestita nella sua dignità pubblica e al tempo stesso, nuda e ardente di vero amore per il proprio sposo.
Antonio Iommelli