La tela, in pendant con quella dedicata al Colosseo (inv. 540), costituisce uno dei rari esemplari di vedute romane di Canaletto nelle collezioni pubbliche della capitale. A dominare la composizione è la Basilica di Massenzio, rappresentata di scorcio, a sinistra, con un punto di vista ribassato che ne accentua l'imponenza. La facciata seicentesca della Chiesa di Santa Francesca Romana, tagliata a metà, occupa il lato destro della scena, contrapponendosi anche cromaticamente alla massa basilicale. In secondo piano, al verticalismo del campanile romanico fa da contrappunto il convento a fianco, ornato di camini veneziani, in una disinvolta combinazione di realtà e invenzione tipica del genere del capriccio pittorico. Sullo sfondo si staglia poi il profilo poco definito del Colosseo. Il cielo, definito da larghe pennellate pastose, oscilla tra i toni dell'argento e quelli di un rosa tenue, mentre in primo piano davanti al muretto le tonalità brunite del terreno, enfatizzate da compatte masse rocciose, sono interrotte solo dalle macchie di colore degli abiti dei personaggi.
Il dipinto, realizzato intorno al 1754-1755 sulla base di un foglio giovanile dei primi anni Venti, fu acquistato nel 1908 sul mercato antiquario londinese su consiglio di Ettore Modigliani, direttore della Pinacoteca di Brera. Ricondotto in passato a Bernardo Bellotto o alla giovinezza di Canaletto, è stato recentemente riportato alla produzione matura di quest'ultimo, anche se – come già precocemente osservava Roberto Longhi – «la distinzione tra un certo periodo del Canal e il Bellotto è, in verità, ancora da delucidare» (1928, p. 225).
Londra, Walter I. Abraham. Acquisto dello stato, 1908.
Sotto un cielo grigio, che in basso sfuma verso toni rosati, si impone a sinistra la facciata nord della Basilica di Massenzio, teatralmente messa in risalto dal punto di vista ribassato. La prospettiva permette di scorgere i soffitti a lacunari delle volte a botte, mentre le fitte ciocche di vegetazione affioranti in cima ai pilastri ne mettono in risalto la sublime frammentarietà architettonica. Quando Canaletto scelse il soggetto della tela, desunto da un disegno giovanile del 1719-20, la Basilica non era ancora nota con tale denominazione: fino agli inizi dell'Ottocento nelle rovine dell'edificio veniva erroneamente riconosciuto il Templum pacis, eretto dagli imperatori della dinastia Flavia per celebrare la vittoria su Gerusalemme (Salatin 2018, p. 92). A controbilanciare il protagonismo del complesso antico emerge a destra la facciata seicentesca della Basilica di Santa Francesca Romana, nitidamente definita nei contorni curvilinei e candidi del travertino di rivestimento. In secondo piano, oltre un muretto, si scorgono poi il campanile romanico in laterizio della chiesa, scandito da bifore, e la massa chiara e compatta di un convento. A quest’ultimo Canaletto aggiunge però camini alla veneziana, oscillando tra veduta ideata e capriccio architettonico. Dettagli di questo tipo, uniti alla libertà nella resa delle proporzioni degli edifici, rivelano gli interessi primari del pittore, disposto a sacrificare la veridicità topografica in nome di un maggiore equilibrio compositivo (Joyeux, in La Grande Bellezza 2020). All'orizzonte, al centro della tela, si distingue infine il profilo del Colosseo, appena ombreggiato da macchie di vegetazione cespugliosa.
Su tale fondale architettonico organizzato scenograficamente le poche presenze umane introdotte sul terreno dissestato in primo piano sembrano retrocedere al ruolo di comparse, restituendo il protagonismo agli imponenti edifici circostanti. Gli sparuti gruppi di figure, colti in atteggiamenti disparati – in piedi, adagiati su escrescenze rocciose, appoggiati al muro di cinta, in movimento –, illustrano un campionario di attitudini possibili nei confronti del mondo classico.
La scarsa arditezza prospettica e la predominanza di colori tenui, distante dalla risonanza luminosa delle opere più evolute dell'artista, avevano indotto parte della critica a riconoscere nella tela un'«impronta prettamente veneziana» tipica del periodo giovanile del pittore (D'Achiardi 1912, p. 82; Ozzola 1913). Non sono però mancate neanche proposte attributive al nipote Bernardo Bellotto (Ashby-Constable 1925; Fritzsche 1936; Parker 1948), oltreché a un autore successivo di incerta individuazione (De Rinaldis 1939). I passaggi di qualità discontinua nel quadro portavano inoltre ad avanzare il nome di Canaletto solo con prudenza (Longhi 1928; Constable 1962).
La prospettiva cauta, il colorito privo di profondità e la gestione controllata dei passaggi di tono tramite pennellate precise non sono tuttavia elementi sufficienti per alienare del tutto l'opera dal catalogo di Canaletto. Gli studiosi moderni che non propendono per la sicura autografia di quest'ultimo (come Beddington 2006 e Joyeux in La Grande Bellezza 2020) tendono dunque a ricondurre il dipinto al lavoro dell’atelier dell’artista intorno al 1745 (Kozakiewicz 1972, Buberl in Roma Antica 1994) o poco più tardi, a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta (B. A. Kowalczyk in Nolli, Vasi, Piranesi 2005, che poi opta per la mano canalettiana in Canaletto: Rome, Londres, Venise 2015 e in Canaletto, 1697-1768 2018).
Malgrado la tela presenti una più sofisticata regia compositiva rispetto al pendant con il Colosseo, pressoché tutte le datazioni e le proposte attributive a essa riferite rispecchiano quelle dell'altra opera, con cui fu acquistata nel mercato antiquario inglese nel 1908 presso Walter Abraham a un prezzo di 2.500 lire su suggerimento di Ettore Modigliani (Kunstchronik 1909, p. 254). Con la stessa comparve anche per la prima volta su rivista nel 1912, sulle pagine del «Bollettino d'arte» in un articolo dell'allora ispettore della Galleria Borghese Pietro d'Achiardi (D'Achiardi 1912).
La disposizione dei rampicanti, la conformazione delle rocce e la posa delle figure in primo piano rendono inequivocabile la derivazione del dipinto da un disegno ora conservato al British Museum (n. 226), tuttavia più ardito nello scarto prospettico tra lo slancio verticale del campanile romanico e le architetture intorno. Quest'ultimo rientrava nel gruppo di ventiquattro lavori su carta eseguiti dall'artista probabilmente durante il viaggio romano del 1719-20, sebbene siano state proposte anche datazioni più tarde (al 1750 almeno per Marshall 2004, p. 54). Riutilizzati a più riprese durante il corso della carriera del pittore, i disegni sono stati riconosciuti come autografi nel 2001 (Chapman, in Canaletto prima maniera 2001, pp. 43-46) e si trovano oggi custoditi tra il museo inglese e quello di Darmstadt. L'esemplare con la Basilica di Massenzio, in particolare, fu tra i più fortunati della serie. L'artista veneziano lo sfruttò sia per un disegno a penna di tocco impressionistico degli anni Quaranta, ora nella Royal Collection di Windsor Castle, sia per un'ampia tela di formato verticale oggi in collezione privata. Anche Joseph Smith se ne servì per ideare un capriccio intorno al 1720-22, mentre l'incisore veneto Giovan Battista Brustolon, partendo da un album di disegni originali donato dagli eredi di Canaletto alla sua morte, lo incluse nella raccolta delle Vedute di Roma, avviata nel 1770.
Il recupero di un disegno giovanile degli anni Venti intorno al 1754-55, quando Canaletto si trovava a Londra, testimonia dunque il revival di soggetti romani atemporali nei circuiti del collezionismo inglese negli anni del Grand Tour, accordandosi pienamente con la pratica del vedutismo di memoria.
Chiara Pazzaglia