Il dipinto ad olio, realizzato su tela fine inglese, raffigura il Colosseo da ovest, reso monumentale dalla differenza di formato rispetto alle poche emergenze architettoniche circostanti. In primo piano, su un selciato rappresentato di scorcio, diversi personaggi pittoreschi disposti a gruppi di due o di tre ritmano la composizione, introducendo un elemento narrativo. La diagonale formata dal sentiero lastricato indirizza lo sguardo sulla sommità dell'Anfiteatro Flavio, dove, in mezzo a fronde vegetali affioranti dalle rovine, si distinguono tre esili croci. Nonostante la concentrazione quasi esclusiva sulla mole dell'anfiteatro, studiati equilibri coloristici tra l'azzurro tenue del cielo, il tono dorato dell'edificio e le poche zone d'ombra dei cespugli erbosi animano la scena, ravvivata qua e là dalle squillanti macchie di colore delle figure.
Basato su uno dei ventiquattro disegni conclusi da Canaletto durante il viaggio romano del 1719-1720, il dipinto nasceva probabilmente senza commissione, negli ultimi anni del soggiorno londinese del pittore e nel clima di rinvigorito interesse per la città eterna nel milieu intellettuale inglese. Benché la critica si sia lungamente divisa in merito alla sua attribuzione – oscillante tra il nipote Bernardo Bellotto e Canaletto giovane –, appare ormai convincente la mano di quest'ultimo, con una datazione intorno al 1754-55.
Londra, Walter I. Abraham. Acquisto dello stato, 1908.
Canaletto mette in scena l'Anfiteatro Flavio dal lato occidentale, con la parte dell'anello mancante rivolta verso l'osservatore. La scelta di tale angolazione, al posto del più completo prospetto di tramontana, appare finalizzata a porre in risalto i ruderi dell'edificio, sottolineati da cespugli di macchia mediterranea affioranti in corrispondenza dei marcapiani dei primi due ordini. La vegetazione parassitaria, più che voler esprimere il ‘sublime terrifico’ alla maniera delle incisioni di Giovan Battista Piranesi, sembra qui rispecchiare fedelmente le condizioni del monumento lungo tutto il Settecento, come emerge ancora nel frontespizio nel Romanarum plantarum a cura del medico Antonio Sebastiani del 1815 (Sebastiani 1815).
Sulla sommità del Colosseo, in posizione leggermente decentrata a sinistra, si distinguono tre croci lignee, che forse corrispondono a quelle fatte piantare per volere del carmelitano Angelo Paoli (1642-1720) su incarico di papa Clemente XI, in anticipo rispetto alla consacrazione di quel sito a luogo della Via Crucis nel 1750 (Cacciari 1756, p. 89). Ligio alle norme del vedutismo realistico, il pittore veneziano non manca inoltre di registrare con esattezza topografica lo stato in cui doveva trovarsi il Colosseo al suo tempo. Lo testimonia la concentrazione su dettagli come la Crocifissione dipinta nell'archivolto dell'ingresso occidentale, di cui si ha traccia nella dissertazione sull'edificio dell'archeologo Giovanni Marangoni (1746, p. 67), ma anche la muratura degli archi del primo ordine, voluta da Clemente XI. L'inserzione del monumento in un contesto extraurbano, infine, non trova riscontro solo nella guidistica seicentesca, ma anche nell'accurata radiografia delle condizioni dell'anfiteatro compiuta dall'architetto Carlo Fontana (1725, pp. 39-44).
La grandezza dell'architettura antica è misurata dalla differenza di formato rispetto alle piccole figure disposte lungo il sentiero. Queste ultime, individuate con vibranti macchie di colore, appaiono coerenti con la consueta rappresentazione dei turisti settecenteschi di fronte a fondali classici negli anni del Grand Tour. Il gusto per l'aneddoto nella descrizione delle scene di genere si combina con un rigoroso impianto prospettico, favorito probabilmente dall'impiego della camera oscura, alle stesse date sfruttata con profitto anche da Gaspar van Wittel. A livello pittorico la luce diffusa e quasi trasparente che investe il paesaggio, pur definendo brani privi di chiaroscuro, non si risolve in un puro monocromato. La gestione dei sottili trapassi tonali tra le diverse tinte è affidata a pennellate precise e trattenute, che solo nella definizione di alcuni punti di luce cedono il passo a tocchi più rapidi e vibranti.
L'idea inventiva della tela dipende strettamente da uno dei ventiquattro disegni acquarellati – custoditi al British Museum di Londra, salvo uno al Museo di Darmstadt – realizzati da Canaletto probabilmente durante il suo viaggio romano del 1719-20 e riconosciuti come autografi nel 2001 (Chapman, in Canaletto prima maniera 2001, pp. 43-46). Si tratta dell'esemplare con il Colosseo, da ovest (n. 235), all'origine anche di un altro disegno, già ritenuto di Bellotto, conservato all'Istituto Centrale per la Grafica di Roma (inv. FN 507 [4143]). A riprova dell'interesse per il tema, l'Anfiteatro Flavio è protagonista di altre tele ricondotte con riserva a Canaletto, come quella delle Collezioni Reali ad Hampton Court (1743), incentrata sul lato nord del monumento. Ispirate allo stesso disegno del British Museum sono infine due opere di sicura mano di Bellotto – una alla Galleria Cesare Lampronti, l'altra presso la Galleria Nazionale di Parma –, nonché una veduta del Colosseo del padre Bernardo Canal, venduta da Christie's a Londra il 5 dicembre 2012 (Joyeux, in La Grande Bellezza 2020, p. 112).
Insieme al suo pendant con la Basilica di Massenzio (inv. 541), il dipinto venne comprato nel 1908 nel mercato antiquario londinese presso Walter Abraham, a un prezzo di 2.500 lire (Kunstchronik 1909, p. 254). A favorire l'acquisto fu Ettore Modigliani, allora direttore della Pinacoteca di Brera e responsabile dell'arrivo di diverse opere del maestro veneto all’interno di collezioni italiane. Immagini delle due tele comparvero per la prima volta in un articolo di Pietro d'Achiardi, allora ispettore della Galleria Borghese, sul «Bollettino d'Arte» del 1912. Da allora sono state diverse le proposte attributive: da Bernardo Bellotto (Ashby-Constable 1925; Fritzsche 1936; Parker 1948) alla «prima maniera» di Canaletto (D'Achiardi 1912; Ozzola 1913), fino alla produzione matura di quest'ultimo, ma con elementi che preludono all'arte di Bellotto (Longhi 1928). Nella letteratura più recente gli studiosi sono generalmente concordi nel riconoscere la mano di Canaletto (Beddington 2006; Joyeux, in La Grande Bellezza 2020), o nel ricondurre più prudentemente le due tele alla produzione del suo atelier a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta (B. A. Kowalczyk in Nolli, Vasi, Piranesi 2005, che poi opta per l'autografia canalettiana in Canaletto: Rome, Londres, Venise 2015 e in Canaletto, 1697-1768 2018). Appare insomma convincente l'ipotesi che i due dipinti della Borghese nascessero senza commissione negli anni del soggiorno inglese dell'artista, a giudicare dalla consonanza stilistica con le opere ordinate da Thomas Hollis nel 1754-55 (Beddington 2006). La ripresa di disegni giovanili del 1719-20 a trent'anni di distanza, coerente con la pratica del vedutismo di memoria, andrebbe pertanto inquadrata nel contesto della rinnovata attenzione per la città eterna negli ambienti intellettuali inglesi negli anni del Grand Tour, senza però trascurare, sul piano personale, il risveglio dell'interesse dell'artista per temi romani all'indomani del viaggio nella capitale del nipote Bernardo Bellotto nel 1742-45.
Chiara Pazzaglia