Il dipinto, documentato in Collezione a partire dalla fine del Seicento, è riferito a Paolo Veronese, nome non accettabile ma senz’altro indicativo dei modelli d’ispirazione dell’artista. La scena del banchetto in casa del fariseo, si svolge in una sala a colonne, oltre la quale si intravede un paesaggio aperto reso secondo le inconfondibili cifre stilistiche del pittore. Nella tela è altresì percepibile il forte influsso del Bassano, soprattutto nella vivacità degli atteggiamenti delle figure, raggruppate in piccole scene di genere. L’opera è cronologicamente riferibile all’ultimo decennio del secolo XVI.
Collezione di Scipione Borghese, documentato in Inv. 1693, Stanza III, n. 129; Inventario 1790, Stanza III, n. 20; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 16. Acquisto dello Stato, 1902.
Sebbene sia stata ipotizzata da Kristina Herrmann (2002) una provenienza Aldobrandini del dipinto in analisi, poi smentita da De Marchi (2004), l’opera è rintracciabile per la prima volta nell’inventario Borghese del 1693, dove è descritta come «un quadro in tela d’Imperatore con la Cena di nro Signore cornice dorata in tela n. 384 di Alessandro Veronese». La paternità della tela cambia nuovamente nell’inventario del 1790, dove si legge: «la cena di nostro Signore Paolo Veronese», per poi passare correttamente alla mano di Scarsellino nel documento fidecommissario del 1833.
Il riferimento a Veronese e alla sua cultura non è affatto sorprendente per un’opera di Ippolito Scarsella, visto che anche nella sua biografia l’abate centese Girolamo Baruffaldi (1675-1753/1755) gli riconosce l’appellativo di «Paolo de’ Ferraresi», ed è una costante individuata dalla critica in particolare per quest’opera. L’influenza del grande maestro veneziano, ravvisabile nell’apertura dello spazio porticato verso un cielo parzialmente nuvoloso dal centro verso destra e degli spazi domestici con la servitù a sinistra, è qui accentuata da un significativo inserimento di elementi antichi - come le colonne tortili istoriate che ricordano i monumenti coclidi di Marco Aurelio e Traiano - e l’ambiente entro cui si svolge il banchetto, che celebra gli spazi porticati delle case romane, ovvero quegli ambienti di comunicazione tra l’atrio esterno e le stanze di servizio che si intravedono appunto sullo sfondo.
L’intera composizione si dispone intorno a una diagonale, così come nella più o meno contemporanea tela viennese raffigurante l’Andata al Calvario (Vienna, Kunsthistorisches Museum, inv. GG_53, Novelli 2008, p. 315, cat. 162) con la quale condivide le scelte cromatiche derivanti dal colorismo veneziano (Novelli 1964), il pathos espresso da gesti ed espressioni dei volti e la minuziosa descrizione di elementi decorativi della scena, in particolare quelli dell’abbigliamento e delle acconciature. Quest’ultimo elemento è da ricollegare sì al panorama artistico veneziano, ma con riferimento alla presenza del pittore olandese Lambert Sustris (1515/1520 circa-1584 circa) in territorio lagunare, il quale proprio verso la metà de XVI secolo si distinse per la resa degli interni domestici con oggetti minuziosamente decorati e definiti, proprio come lo sono in questo caso lo scorcio del forno a sinistra, la credenza di esposizione dei piatti, la brocca e il tavolo di servizio sulla destra (Herrmann Fiore 2002).
È di nuovo il riferimento all’ascendenza veneziana di questa tela che ne consente una datazione entro l’ultimo decennio del Cinquecento: Venturi (1893) intravede in questo dipinto le vivaci scene iperpopolate prodotte nell’ambito della bottega dei Bassano, dove personaggi in abiti nobiliari si mescolano senza alcun criterio sociale riconoscibile a persone del popolo. Tale componente rustica deriverebbe anche dalla compenetrazione tra quella pittura bassanesca che la Herrmann Fiore (2002) definisce «antiaulica» e la visione delle opere della triade Tiziano, Tintoretto e Veronese. Proprio a quest’ultimo si riferisce in particolare Ippolito, il quale, come è stato recentemente rilevato (Stefani 2000), sceglie per raffigurare l’opulento padrone di casa le sembianze dell’imperatore Vitellio, così come aveva fatto Paolo Caliari nella sua Cena in casa di Levi oggi alle Gallerie dell’Accademia di Venezia (inv. 203) replicando un antico busto della collezione Grimani (oggi presso il Museo archeologico nazionale di Venezia, inv. 20).
Lara Scanu