Il dipinto è uno dei capolavori dell’artista veneto e rappresenta una testimonianza della capacità di assorbimento, anche nell’entroterra, delle soluzioni compositive di Raffaello, Dürer e Leonardo. Lo spazio chiuso, raccolto fra la quinta architettonica dello sfondo e la movimentata scena in primo piano, evidenzia le particolari fisionomie degli apostoli, lontane da ogni idealizzazione come in altre opere dell’artista.
Venezia, Battista Erizzo, 1546 (P.C. Marani 2001, p. 310); Roma, collezione Borghese, Inventario 1700, n. 16; Inventario 1790, Stanza III, n. 13; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 18. Acquisto dello Stato, 1902.
In esposizione temporanea alla Galleria Nazionale d'Arte Antica per la mostra "Raffaello, Tiziano, Rubens. Capolavori dalla Galleria Borghese a Palazzo Barberini"
Il dipinto è stato identificato con la Cena commissionata nel 1546 dal nobile veneziano Battista Erizzo (P.C. Marani 2001, p. 310). Il saldo di trenta scudi di quest’opera è stato compiuto tra il 1547 e i primi mesi dell’anno successivo. Data l’alta qualità pittorica, l’opera è stata considerata una delle principali dell’artista. Di questa si conosce una precedente versione identificata con quella commissionata da Ambrogio Frizier nel settembre del 1537 e oggi nella parrocchiale di Wormley nel Hertfordshire (Joannides, Sachs 1991, pp. 695-699).
La prima presenza del dipinto in collezione Borghese è stata individuata in quella che la vuole nell’inventario del 1700 sotto il nome di Tiziano. Ancora verso la fine del secolo (1787) è ricordata sotto il nome dello Schiavone (Ramdhor 1787, I, p. 290). Soltanto nel 1893 Adolfo Venturi ne propose convintamente il nome di Jacopo Bassano, pur rilevando come «Nel quadro di tinte monotone domina il rosso sbiadito proprio del Bassano, e si mostrano le sue predilezioni di pittore di genere: il gatto, il cane, la lustra bacinella metallica. Alcune teste sono piene di carattere, ma quasi tutte senza idealità. Il resto dei corpi, le estremità specialmente, dipinte di maniera, spiccano e s'intrecciano malamente» (Venturi 1893, p. 102). Il riconoscimento proposto da Venturi non è condiviso da Lorenzetti che nel 1911 la ritiene «opera di scuola o di bottega, piuttosto che di Jacopo» (Lorenzetti 1911, pp. 241-257). Allontanandosi dalla matrice bassanesca, Willumsen riferisce il dipinto a El Greco (Willumsen, 1927, I, pp. 107-123). Un termine di paragone utile per la datazione dell’opera Borghese è stato individuato dalla critica nell’Ultima cena di Tintoretto all’interno della chiesa di San Marcuola (1547), da cui riprende l’impianto compositivo e la struttura generale dell’opera: secondo Pallucchini, la stringente dipendenza da questa porterebbe ad una datazione della tela Borghese intorno al 1550 (Pallucchini 1950, pp. 53, 103): quest’ultima proposta ha sostanzialmente trovato concorde la critica successiva (Longhi 1948, p. 50; Zampetti 1957, p. 64; Magagnato 1981, p. 169). Tuttavia, la più recente anticipazione della datazione alla metà degli anni quaranta del Cinquecento ha svincolato l’opera di Bassano da quella eseguita da Jacopo Robusti. In questo senso il dipinto è preso spesso a paradigma dello stato di aggiornamento sulle soluzioni artistiche contemporanee da parte di Bassano, che nonostante l’isolamento della provincia riesce comunque a tenersi aggiornato sulla produzione di Raffaello e di Dürer. Dall’incisione dell’Ultima Cena stampata dall’artista tedesco nel 1523, Bassano recupera singole soluzioni compositive, come quella relativa alla figura del Cristo, oltre a quella dell’apostolo Giovanni rappresentato addormentato con la testa tra le braccia incrociate e quello del bacile in primo piano. Una lezione che diventa sostanziale ripresa di una tensione emotiva, di una esasperazione espressiva, che si manifesta nella dinamica dei gesti e nel dinamismo dell’intera composizione. Sulla destra è presente la figura di Giuda, tradizionalmente dall’altra parte della tavola rispetto a quella di Cristo, con la borsa dei trenta danari e il gatto ai suoi piedi, ben messo in luce dall’ultimo restauro della tela. Da una visione complessiva emerge la complessità dell’intera composizione, in cui tutti i personaggi si dividono senza prestare attenzione al Cristo al centro, alla fonte del Verbo, separandosi in fazioni contrapposte e distogliendo così il convincimento dalla sostanza e dal significato del sacrificio (Gentili 2000, pp. 173-181).
Fabrizio Carinci