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Compianto su Cristo morto

Rubens Pieter Paul

(Siegen 1577 - Anversa 1640)

A lungo ritenuto opera di Antoon Van Dyck, il Compianto sul Cristo Morto è oggi ricondotto concordemente alla mano di Peter Paul Rubens. Studi recenti hanno chiarito che il dipinto confluì nella collezione Borghese solo nell’Ottocento, tramite acquisto di Camillo Borghese effettuato probabilmente tra il secondo e il terzo decennio del secolo,

Resta invece da chiarire il contesto di esecuzione dell’opera, forse in rapporto con una commissione da parte del cardinale Peretti Montalto, a cui Rubens fu affidato durante la sua prima permanenza a Roma all’inizio del Seicento. A questo periodo va certamente ricondotta l’opera, come suggerito dal confronto con altre opere dell’artista eseguite negli stessi anni.


Scheda tecnica

Inventario
411
Posizione
Datazione
1601-1602
Tipologia
Periodo
Materia / Tecnica
olio su tela
Misure
cm 180x136
Cornice

‘800 (con kymation, fregio grande di acanto e ghiande) cm. 212,5 x 171,5 x 12

Provenienza

Roma, Camillo Borghese, post 1818; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 10, n. 9. Acquisto dello Stato, 1902.

Mostre
  • 1965 Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique
  • 1987-1988 Roma, Palazzo Barberini
  • 1989 San Pietroburgo, Hermitage Museum
  • 1990 Padova, Palazzo della Ragione
  • 1992 Canberra, National Gallery of Australia; Melbourne, National Gallery of Victoria
  • 1995 Bruxelles, Palais des Beaux-Arts; Roma, Palazzo delle Esposizioni
  • 2004 Lille, Palais des Beaux-Arts
  • 2005 Mantova, Palazzo Ducale
  • 2009-2010 Siena, Complesso museale di Santa Maria della Scala
  • 2013 Lens, Louvre-Lens
  • 2016-2017 Milano, Palazzo Reale; Tokyo, National Museum of Western Art
  • 2019 San Francisco, Legion of Honor; Toronto, Art Gallery of Ontario
Conservazione e Diagnostica
  • 1914 Tito Venturini Papari
  • 1936 Carlo Matteucci
  • 1947 Carlo Matteucci
  • 1958 Renato Massi (cornice)
  • 1987 Restauratori della Soprintendenza
  • 1988 Restauratori della Soprintendenza / Rolando Dionisi

Scheda

La prima menzione dell’opera negli inventari Borghese compare nell’elenco fidecommissario del 1833, dove è descritto come: “La Deposizione di Croce, di Vendich, largo palmi 8, oncie 1; alto palmi 8”.

L’attribuzione a Van Dyck, probabilmente derivante dall’iscrizione sette-ottocentesca posta sul retro della tela (“N. 9 di Vandich”), viene successivamente ripresa da diversi studiosi (Piancastelli 1891, p. 407; Venturi 1893, p. 196; Fierens 1920, p. 59) e vi aderisce anche Cantalamessa (1912, n. 411), inizialmente orientato su un anonimo maestro genovese. Il nome di Rubens, oggi generalmente condiviso, è avanzato da Oldenbourg (1916, pp. 265, 274, 276; Id. 1921, p. 20), il quale riferisce il dipinto al 1605 circa, durante il secondo soggiorno romano dell’artista. Tuttavia, l’esecuzione del quadro è oggi più convincentemente ricondotta agli anni della prima permanenza di Rubens a Roma (1601-1602), sia per le proporzioni dei personaggi, da cui emerge la lezione di Otto van Veen, sia per lo stretto rapporto tra la figura della Vergine e quella di Sant’Elena nella pala per Santa Croce in Gerusalemme, anch’essa dello stesso periodo (oggi nel Museo Diocesano di Grasse; si veda Müller Hofstede 1977, p. 172; Jaffé 1989, p. 148; Guarino 1990, p. 17; Rubens 1990, p. 42; Balis 1995, p. 298; Paolini 2016, pp. 144-145 Granata 2020, p. 43).

Di provenienza ignota, la critica si è a lungo interrogata sulle circostanze che hanno determinato l’ingresso del Compianto in collezione, ipotizzando che potesse trattarsi di un dono fatto a Scipione da parte del cardinale Peretti Montalto, possibile committente del dipinto. A quest’ultimo era stato affidato Rubens durante i suoi primi anni di permanenza a Roma da Vincenzo I Gonzaga, protettore dell’artista (Jaffé 1977, p. 61; Id. 1989 cit.; sulla questione si vedano anche Rubens cit.; Guarino cit.; Paolini cit.).

Se da una parte permangono gli interrogativi sulla committenza dell’opera, dall’altra l’ipotesi della donazione a Scipione è sfumata a partire da alcuni importanti ritrovamenti documentari che attestano il dipinto tra i numerosi acquisti d’arte di Camillo Borghese tra il secondo e il terzo decennio dell’Ottocento. nei documenti si fa riferimento ad un “Vandich rappresentante la deposizione dalla croce”, descrizione coerente con quella dell’inventario fidecommissario del 1833 (Costamagna 2003, p. 103).

Studi recentissimi hanno inoltre aperto la strada alla possibile identificazione dell’opera con la Deposizione attestata nell’ultimo decennio del Settecento nelle mani di James Durno, mercante britannico attivo sulla scena romana (si veda Coen 2020, pp. 283-285), ipotesi che aggiungerebbe un ulteriore tassello alla storia del dipinto.

Nell’elaborazione dell’episodio del Compianto, momento intermedio tra la deposizione di Cristo dalla croce e la sua sepoltura, Rubens riunisce elementi della tradizione d’oltralpe e di quella italiana. Di matrice nordica è la scelta di inserire il sarcofago come rappresentazione del sepolcro, mentre la posizione del Cristo rispetto alla Vergine, che sorregge il figlio dalla schiena invece che tenerlo adagiato sulle ginocchia, è d’ispirazione italiana; questa stessa soluzione compositiva si ritrova infatti in una delle due pale d’altare dipinte nel 1524 da Correggio per la cappella del Bono nella chiesa di San Giovanni Evangelista a Parma (oggi nella Galleria Nazionale), di cui Rubens possedeva una copia. Altri possibili modelli cinquecenteschi per la posizione eretta del Cristo sono stati individuati nel Compianto con tre angeli di Giuseppe Porta conservato a Dresda (Jaffé 1989 cit.; si veda anche Rubens cit.; Balis cit.) e nel Compianto di Tintoretto delle Gallerie dell’Accademia di Venezia; in quest’ultimo Giuseppe d’Arimatea sostiene Gesù dalla spalla destra, motivo che ritorna anche nella tela di Rubens (Paolini cit.).

Il braccio destro di Cristo riecheggia un noto motivo antico derivante dal rilievo con il Trasporto del corpo di Meleagro delle collezioni capitoline, e ricorda da vicino la celebre Deposizione di Raffaello, che Rubens poteva aver visto direttamente nella chiesa perugina di San Francesco al Prato (oggi in Galleria Borghese, inv. 369). Il motivo ritorna anche in prototipi tizianeschi e nella tela di Caravaggio per Santa Maria in Vallicella a Roma (oggi in Pinacoteca Vaticana), pressoché contemporanea al Compianto rubensiano (Guarino cit.; Costamagna 2005, p. 77).

Ulteriore riferimento all’antico sembra rintracciabile nel putto raffigurato all’estrema destra del sarcofago, richiamo, secondo David Jaffé (2010, p. 96) al Fanciullo con oca di Palazzo Altemps a Roma.

Nella tela Borghese l’artista dimostra non solo un’approfondita conoscenza della cultura antica, ma anche di quella teologica, come suggerito da diversi elementi: oltre al sarcofago stesso, richiamo all’altare dell’eucarestia, si notino anche le sovrastanti rappresentazioni di un putto che sorveglia il fuoco, probabile allusione alla sopravvivenza dell’anima dopo la morte, e dell’ariete, simbolo legato al giubileo come momento di remissione dei peccati (Paolini, cit.)

Il quadro è stato ingrandito in epoca imprecisata, forse per adattarlo all’attuale cornice dopo la sua rimozione dal contesto originario, perdendo così le proporzioni iniziali che permettevano di accostarlo ad un disegno coevo rappresentante la Discesa dalla croce (San Pietroburgo, Hermitage), forse preparatorio per un pendant mai realizzato. Il luogo di destinazione iniziale del Compianto Borghese è sconosciuto, ma la possibilità di una visione dal basso, tipica delle opere di chiesa, potrebbe suggerire un ambiente ecclesiastico (Rubens cit.; Guarino cit.; Paolini cit.).

Pier Ludovico Puddu




Bibliografia
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  • G. Piancastelli, Catalogo dei quadri della Galleria Borghese in Archivio Galleria Borghese, 1891, p. 407;
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