Le due anfore presentano un piede circolare modanato e un breve fusto, che sostiene il corpo rigonfio con una strozzatura e una spalla orizzontale; le due anse sono scolpite a forma di protomi aquiline, che terminano con i becchi appoggiati sull’orlo del vaso. Il coperchio è concluso in alto da un pomolo globulare schiacciato.Il coperchio è concluso in alto da un pomolo globulare schiacciato.
La critica è concorde nell’attribuire la coppia di anfore a Silvio Calci da Velletri, per analogia con altre opere dell’artista presenti nella collezione Borghese. In particolare, è caratteristico dell’autore il contrasto tra le linee essenziali del vaso, sottolineate dal nero assoluto e lustro del marmo, e l’elemento naturalistico dell’animale, con le piume del collo che si allargano all’attacco delle anse sulla spalla del vaso.
In assenza di documentazione d’archivio non è possibile datare con certezza l’esecuzione delle due opere, la cui committenza Borghese viene ricordata dalla presenza dell’aquila, animale araldico della famiglia.
Sul corpo dell’anfora inv. CXXXIII si legge un’iscrizione dipinta con il numero, erroneo, CXXXI.
Eseguite per la famiglia Borghese nella prima metà sec. XVII. Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 52. Acquisto dello Stato, 1902.
Il materiale usato per la realizzazione delle due anfore è il marmo nero antico:compatto e caratterizzato da una grana finissima, veniva estratto in epoca romana dalle cave tunisine di Djebel Aziz o Chemtou (Marchei 1997, pp. 254-255).
Le anfore poggiano su un piede circolare con un echino dritto tra due listelli, sul quale si innesta un breve fusto con terminazione a becco di civetta; il corpo è rigonfio e con una strozzatura, mentre la spalla è orizzontale e su di essa si innesta con un listello il collo, concluso in alto da unorlo a becco di civetta compreso fra due listelli. Il coperchio, a gola dritta di base, è concluso in alto da un pomolo globulare schiacciato. Tra la parte alta del corpo e la spalla si innestano le due anse, scolpite a protome aquilina.
Non si è reperita documentazione, nell’archivio Borghese, relativa al pagamento delle due anfore,l’attribuzione e la datazione delle stesse sonopertanto affidate al solo dato stilistico. Innegabili sono le somiglianze tra questi manufatti e le due anfore con anse serpentiformi eseguite nel 1638 da Silvio Calci, per quanto riguarda la presenza dell’elemento animale che contrasta la linearità del resto dell’opera; linearità che in questo caso è particolarmente accentuata, data l’assenza di motivi decorativi quali baccellature o foglie. Tale attribuzione, avanzata nel 1948 dal De Rinaldis (p. 25), è stata concordemente accettata dalla critica successiva (Faldi, 1954, p. 44; Della Pergola 1974, p. 14.). La destinazione originaria di queste opere alla famiglia è sottolineata dalla presenza dell’elemento araldico delle aquile.
Jennifer Montagu, basandosi sulla rilettura di un pagamento ad Alessandro Algardi del 17 agosto 1637 per “diversi modelli di vasi et fontane di esso fatto per S.E.”ne ha proposto l’attribuzione al Bolognese del disegno delle due anfore, poi scolpite da Silvio Calci (Archivio Segreto Vaticano, Archivio Borghese, vol. 5595, n. 593, in Montagu 1985, II, p. 461, cat. A.212). Tale ipotesi ne collocherebbe l’esecuzione alla fine degli anni Trenta del Seicento, quando i due avrebbero più volte collaborato all’esecuzione di oggetti decorativi per Marcantonio II Borghese. Tenendo conto soltanto delle citazioni nelle fonti, l’assenza delle anfore nella descrizione di Manilli ne lascerebbe supporre piuttosto un’esecuzione successiva al 1650.
La prima menzione in una fonte della presenza delle anfore nella villa è ad opera di Montelatici, che le descrive esposte nella sala della zingara, oggi sala XIX (1700, p. 284); nel 1796 Lamberti e Visconti (I, p. 34) le individuano nella sala del Vaso (sala I) come pendant di una coppia di anfore in pavonazzetto del XVIII secolo (inv. CIX). Esposte all’inizio dell’Ottocento nella sala Egizia (Nibby, 1832, p. 119 e 1841, p. 923), nel 1893 erano nella sala IV al pianterreno (Venturi, p. 33).
Sul corpo dell’anfora inv. CXXXIII si legge un’iscrizione dipinta con il numero, erroneo, CXXXI.
Sonja Felici