Il pittore è documentato a Roma, insieme ad Alessandro Turchi, in alcuni cantieri avviati per interessamento di Scipione Borghese per il quale Marcantonio Bassetti eseguì alcune opere da cavalletto, come questo Cristo deposto in cui sono leggibili nei bagliori luminosi ricordi veneti.
Pur nella fedeltà alla sua formazione avvenuta in area veronese, Bassetti si lega in questo dipinto all’ambiente caravaggesco romano, riprendendo nei gesti delle figure la maniera tintorettesca e nel volto in penombra della Madonna alcuni esempi di Girolamo Savoldo.
Roma, collezione Borghese, 1693 (Inventario 1693, Stanza XI, n. 96); Inventario 1700, Stanza V, n. 189; Inventario 1790, Stanza V, n. 18; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 40. Acquisto dello Stato, 1902.
Il dipinto è documentato in collezione Borghese a partire dal 1693, citato nell'inventario di quell'anno come opera di un tale Martiniani, nome mutato (1700) con quello del Guercino e così registrato sia nell'inventario del 1790, sia negli elenchi fedecommissari del 1833. Nel 1893, ritenendola "un abbozzo trascurato assai nella forma", Adolfo Venturi assegnò l'opera ad Alessandro Tiarini, attribuzione rifiutata da Roberto Longhi (1926) e da Paola della Pergola (1955), i quali vi riconobbero la mano di Marcantonio Bassetti, ritenendo il dipinto un punto d'arrivo caravaggesco eseguito dal pittore veronese intorno al 1616 a Roma. Tale parere fu accolto positivamente da Anna Ottani Cavina (1974) che, nel catalogo della mostra sui Cinquant'anni di pittura veronese (1580-1630), notò nel tragico frenare degli eventi 'agganci tintoretteschi e veronesiani', nonché memorie savoldesche nel volto della Vergine. Secondo la studiosa, inoltre, l'esperienza caravaggesca sembra qui mediata dall'attività di Orazio Borgianni, di Carlo Saraceni e dal decennio romano (1604-1614) di Hendrick ter Brugghen.
Come ha giustamente sottolineato Pier Luigi Fantelli (1974), l'assegnazione da parte di Longhi e di tutta la critica della presente tela al primo periodo romano del Bassetti ha gettato le basi per la comprensione dell'iter pittorico dell'artista che, giunto a Roma nel 1614 insieme ad Alessandro Turchi, entrò nel gruppo dei protetti del Saraceni, collaborando in qualità di assistente nel Palazzo di Montecavallo. Il suo stile, infatti, fedele alla tradizione pittorica veneziana, si aggiornò nel corso del soggiorno romano sugli esempi di Borgianni, giungendo a risultati paralleli a quelli di Giovanni Serodine e di Domenico Fetti, caratterizzati da una pennellata più ruvida e greve (cfr. Ivanoff 1970); conquiste ancora poco visibili nella tela Borghese che si situa all'inizio di questo percorso, conclusosi nel 1620 con il ritorno del pittore a Verona, dove morì di peste nel 1630.
L'opera rappresenta la deposizione di Cristo dalla croce il cui corpo, calato lentamente a terra grazie a delle fasce di lino acquistate da Giuseppe d'Arimatea, fu avvolto in un candido lenzuolo prima di essere deposto nel sepolcro. La scena, infatti, raffigura il preciso istante in cui la Madonna e Maria Maddalena piangono sulla salma di Gesù adagiata a terra da Nicodemo mentre Giuseppe d'Arimatea si appresta a rimuovere le bende.
Antonio Iommelli