La tela, attribuita a Tiziano dall’inventario del 1693, è opera di Bonifacio de’ Pitati. La scena, ripresa dal Vangelo di Matteo (20, 20-28), raffigura la richiesta che Salomè, madre di Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, sottomette a Gesù, di far sedere i suoi figli accanto a lui.
Roma, collezione Borghese, 1693 (Inventario 1693, Stanza V, n. 14); Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 8. Acquisto dello Stato, 1902.
Il dipinto è identificabile nell’inventario del 1693 della collezione Borghese nel “quadro grande con Nro Sig.re a sedere con il libro in mano con gli Apostoli intorno con una Donna avanti in ginocchioni del N° 344 di Tiziano”. Assegnato alla mano di Bonifacio de’ Pitati nell’Inventario Fidecommissario del 1833, è stato in seguito riferito da Venturi (1928) ad Antonio Palma, mentre Berenson (1936) e Longhi (1928) lo attribuivano alla mano dell’artista veronese, seguiti da Della Pergola (1955). Il De Rinaldis (1948) riprendeva l’ipotesi già avanzata dal Morelli (1897), proponendo che il dipinto fosse opera di Bonifazio Veronese il Vecchio, dal cui catalogo era stato precedentemente escluso da Wesphal (1931). Nella recente monografia di Cottrell e Humfrey (2021) il dipinto è stato riabilitato e assegnato alla mano di de’ Pitati, forse affiancato da qualche aiuto di bottega. I due studiosi datano la tela intorno al 1545-1546 per le affinità riscontrabili in altre opere risalenti a questo stesso giro di anni quali ad esempio il Cristo e l’Adultera delle Galleria dell’Accademia di Venezia (ivi, p. 383, cat. 131) e la Madonna col Bambino, Santa Caterina d’Alessandria e San Giacomo (ivi, p. 388, cat. 139), di cui la tela Borghese riproduce in controparte la testa di San Giacomo, opere entrambe collocabili tra 1544-1546.
Il soggetto è tratto dal Vangelo di Matteo (20, 20-28) e raffigura la moglie di Zebedeo Salomé prostrata in ginocchio di fronte a Gesù, al quale chiede di concedere ai suoi figli Giacomo e Giovanni un posto in Paradiso alla sua destra e alla sua sinistra.
Elisa Martini