Il dipinto è una replica di una tavola di uguale soggetto realizzata nella cerchia di Raffaello, conservata al Kunsthistorisches Museum di Vienna. È possibile che un'incisione di Giulio Bonasone, databile circa al 1563, tratta dalla tavola di Vienna, possa aver fatto da riferimento per il dipinto in collezione Borghese e per altre repliche del soggetto.
Roma, Collezione Borghese, Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 33. Acquisto dello Stato, 1902.
La scena è ambientata su uno sfondo caratterizzato sulla sinistra da alcuni alberi e da un rilievo roccioso, mentre sulla destra la palma che sovrasta la figura di san Giuseppe evoca l’ambientazione della fuga in Egitto. La Vergine tiene in grembo il Bambino, che dalle braccia della madre si sporge verso il piccolo san Giovanni inginocchiato, cinto ai fianchi da una ghirlanda di foglie di vite che trattiene la pelle di cammello, mentre Giuseppe, in un gesto originale e significativo, con la mano destra si protende afferrandogli il braccio per aiutarlo ad alzarsi in piedi.
Il dipinto non appare identificabile con certezza prima dell’inventario fidecommissario del 1833, dove compare con l’attribuzione a Giulio Romano, abbandonata nei successivi cataloghi a stampa della collezione a partire dal 1854, quando compare come “scuola di Raffaello”.
Già nel 1839 infatti Passavant, nel descrivere il “Riposo in Egitto” del “Belvedere” di Vienna (oggi Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie, 174), giudicato dallo studioso elaborazione di uno “schizzo incompleto” di Raffaello portato a termine da un allievo, aveva individuato la tavola Borghese come copia del medesimo, associandola ad altri quattro dipinti, di cui indicava la presenza rispettivamente: a Madrid (collezione di Jose de Madrazo), a Milano (sacrestia di Sant’Eustorgio), a Roma (collezione Doria Pamphilj), oltre a quello già in collezione Colonna (segnalatogli da William Buchanan).
Il dipinto di Vienna, anticamente ritenuto di Raffaello, apparteneva dal 1565 alla collezione del cardinale Carlo Borromeo; passato nel 1584 per lascito testamentario alla chiesa di Santa Maria dei Miracoli presso San Celso a Milano, dove era indicato dalle guide settecentesche con la denominazione di Madonna del Divino Amore (E. Bianchi, Pinacoteca di Brera. Addenda e apparati generali, 1996, pp. 250-251), venne acquistato nel 1779 dall’imperatore austriaco Giuseppe II. Se Crowe e Cavalcaselle (1885, II, p. 554), senza citare le diverse copie, avevano associato al dipinto i nomi di Giulio Romano e Giovan Francesco Penni, l’opera è stata ritenuta da Dussler (1971) un caso quasi paradigmatico di utilizzo e combinazione di elementi derivati da Raffaello slegati dall’esistenza di una composizione effettivamente creata dal maestro. Diverso il parere di Oberhuber (1999, p. 247, fig. 228) che sulla base degli studi per la figura di Gesù Bambino presenti sul foglio acquistato dal Metropolitan Museum nel 1997 (New York, Metropolitan Museum, 1997.75), databili tra il 1511 e il 1512, ha individuato nella tavola di Vienna la mano del maestro, soprattutto in alcuni particolari del san Giuseppe, della Vergine e del Bambino, attribuendo il resto della composizione all’ambito fiorentino di Andrea del Sarto. Proprio sull’armonia generale della composizione permangono ancora da parte della critica (Meyer zur Capellen 2005) alcuni dubbi che lasciano aperto il problema dell’effettiva entità del lavoro della bottega.
Riguardo alla tavola in esame, Venturi (1893), rilevando il cattivo stato di conservazione del dipinto, ne spostava l’attribuzione verso l’ambito bolognese dichiarandolo “una copia nerastra (da Raffaello) con toni azzurri quali si riscontrano in quadri bolognesi del ‘600”; riferimento, quest’ultimo, ripreso da Cantalamessa che, in una nota manoscritta di commento allo stesso Venturi (20 aprile 1912) oltre a giudicare l’opera forse ispirata, ma non direttamente riferibile, a Raffaello dato che “un originale del Maestro che risponda a questo quadro non c’è e il quadro di Vienna è cosa ben differente”, ne approvava la collocazione in ambito bolognese, comunicando contestualmente l’attribuzione della stessa a Camillo Procaccini da parte di Corrado Ricci. In un’annotazione di poco successiva (2 maggio 1912) Cantalamessa aggiungeva una importante osservazione: “Mi accorgo oggi che il quadro, benché riprodotto con libertà quanto allo stile, è copia di uno di fra Paolino da Pistoia, passato a Roma dal Principe Doria. Il copiatore ha dato a S. Giuseppe la barba che nell’originale manca, e gli ha aggravata la senilità; di più, ha abolito due angeli in piedi, a destra di S. Giuseppe, ed ha cambiato la campagna di fondo”. Il riferimento della Sacra Famiglia con San Giovannino e due Angeli (Roma, collezione Doria Pamphilj, inv. FC 320) al frate pistoiese, ancora oggi accettato, era stato peraltro proposto fin dal 1892 dallo stesso Cantalamessa (A. G. De Marchi, Collezione Doria Pamphili. Catalogo generale dei dipinti, Cinisello balsamo 2016, p. 183). E non a caso Longhi nelle sue “note” al Venturi (1928) avrebbe aggiornato l’attribuzione della tavola Borghese definendola “[copia da Raffaello]… Ora meglio definita: ‘copia libera’ da Frà Paolino da Pistoia”.
A distanza di circa trent’anni Paola Della Pergola (1959), che aveva avanzato il dubbio che i riferimenti della critica ottocentesca a Paolino da Pistoia non fossero in realtà collegabili all’inventario n. 368 bensì a una copia della Madonna del Divino Amore presente dal 1862 tra i beni liberi della collezione Borghese, venduta nei primi anni del XX secolo, dopo la redazione del catalogo generale (1959) procedette alla pulitura della tavola che, sotto uno spesso strato di ridipinture ottocentesche, restituì il paesaggio originale oltre alla palma visibile sulla destra e a molta parte della figura di Giuseppe.
Ispirata al dipinto di Vienna è l’incisione realizzata nel 1563 ca. da Giulio Bonasone (Bartsch 1819, XV, p. 126, n. 59), a cui è possibile abbiano fatto riferimento le numerose repliche variate, tra cui quella Borghese (Massari 1983; G. Bernini Pezzini in Raphael invenit, 1985).
Marina Minozzi