Il dipinto è replica della celebre opera di Tiziano (del 1511-1512) conservata a Edimburgo con poche, ma significative varianti. Non è noto quando e come questo esemplare entra nella collezione Borghese, dove comunque è citata fin dal 1700 ed è ricordata nell’inventario fidecommissario del 1833 come opera di Sassoferrato.
Cornice ottocentesca, fregio esterno a kymation
124 x 181,7 x 12,2 cm
(?) collezione Aldobrandini-Pamphilj (Della Pergola, 1955); Collezione Borghese, citato in Montelatici, 1700, p. 297; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 11; Piancastelli, ms, 1891, p. 346. Acquisto dello Stato, 1902.
La tela è una versione delle Tre età di Tiziano (collezione Bridgwater, duca di Sutherland, in deposito presso la National Gallery of Scotland, Edimburgo), eseguito all’inizio del secondo decennio del Cinquecento.
Nel nostro esemplare la rappresentazione si svolge in un verde paesaggio, chiuso a sinistra da una quinta arborea e a destra da un edificio in parte nascosto da alcuni alberi, e aperto al centro su una valle che si perde all’orizzonte, contro un cielo azzurro solcato da bianche nubi; a mezza altezza si intravede un pastore con il suo gregge. Tre gruppi di personaggi abitano la scena: a sinistra una coppia di giovani è adagiata sul manto erboso e fiorito: il ragazzo, quasi completamente nudo, poggia il proprio flauto a terra e guarda intensamente la fanciulla, che ricambia lo sguardo; i biondissimi capelli sono parzialmente raccolti e ornati da una coroncina di mirto; è abbigliata di rosso e bianco; ha due flauti nelle mani: uno appena più vicino alle sue labbra, l’altro esplicitamente allusivo alla tensione erotica evidente tra i due innamorati. Sulla destra due putti dormono abbracciati, vegliati da un Amorino che sembra sorreggere il tronco di un albero secco. Poco più in là, un vecchio seduto tiene in mano un teschio, circondato almeno da altri tre e da alcune ossa.
La raffigurazione si scosta dall’originale tizianesco per alcune, importanti differenze. Non tanto l’edificio (un casolare di campagna nella versione di Edimburgo), quanto e soprattutto il numero di teschi su cui il vecchio riflette, quattro nel dipinto Borghese, due nell’opera di Tiziano, in cui più drammatico e pregnante viene restituito il senso moralizzante imposto dal giovane maestro: la vita che scorre all’insegna del sottile equilibrio tra voluptas e virtus, dalla fanciullezza (due sono i putti vegliati da Amore) alla maturità (due sono i giovani intenti in un rapporto amoroso), che nel vecchio genera solo rimpianto di inutile vanità (due sono i teschi su cui riflette), destinata a morire come tutte le cose, come l’albero secco che idealmente separa la prima con la terza età, se non resa virtuosa da Amore che vigila sui piccoli protagonisti. Un ciclo continuo, inevitabile, uguale a se stesso, dove l’umanità è sempre di fronte a scelte universali, tra possibili cadute e bramata eternità: temi centrali nella produzione del giovane Tiziano, ricorrenti e diversamente declinati nell’attività più tarda e finale.
Le radiografie del dipinto di Edimburgo, pubblicate nel 1971 (Robertson), hanno mostrato l’esistenza di un’idea primitiva dell’opera, assai prossima per quei medesimi particolari (il numero di teschi avanti tutto) proprio alle due versioni note della tela di Tiziano: gli esemplari Borghese e Doria Pamphilj (De Marchi), per composizione pressoché identici fra loro.
Il tema è ampiamente dibattuto, e la critica ha avanzato la possibilità che dalla stessa bottega tizianesca fossero uscite almeno due, se non tre repliche (con varianti) di questa allegoria sulla vita umana (Humfrey), di cui solo una giunta fino a noi, attestate dalle diverse versioni citate dalle fonti (Wethey), dall’incisione di Valentin Le Fevre (circa 1680), e soprattutto dalle copie/derivazioni romane tuttora esistenti. La datazione di queste ultime è anch’essa oggetto di discussione, e si lega da un lato alle rispettive vicende collezionistiche, dall’altro al rapporto diretto almeno con una originale versione di Tiziano, presente forse a Roma tra Cinque e Seicento. Il dipinto di Edimburgo è a Roma alla metà del Seicento nella collezione di Cristina di Svezia, acquistato nel 1655 e registrato nella residenza della regina in palazzo Riario nel 1662, ma, oltre che per le differenze compositive già evidenziate, è improbabile che il dipinto Doria possa dipendere da questo, poiché è sicuramente nella collezione di Pietro Aldobrandini (poi per eredità e matrimoni giunta ai Doria Pamphilj) già nel 1603 (D’Onofrio). Quest’ultima notazione sembra di un certo rilievo, non perché si voglia ritenere autografa la versione Doria, quanto piuttosto perché quest’ultima, da considerarsi cinquecentesca (De Marchi) e realizzata su prototipo tizianesco, fu ritenuta di Tiziano almeno all’inizio del Seicento e per quasi tutto il secolo, in un contesto come quello romano in cui opere di bottega o perfino realizzate alla maniera del maestro circolavano e affollavano le collezioni aristocratiche e cardinalizie come Tiziano tout court, destando ammirazione degli amatori, sollecitando l’attenzione di artisti in viaggio o residenti, originando copie.
Entro questo orizzonte con ogni probabilità viene prodotto l’esemplare Borghese, forse intorno al 1682, quando a seguito della morte di Olimpia Aldobrandini per questioni ereditarie si produsse l’inventario (1682) in cui compare “un quadro in tela con un Pastore et una Donna che sona il flauto con tre Amorini et un Vecchio a giacere alto palmi quattro Cornice dorata di Titiano” (Della Pergola, 1955). La divisione della collezione dei dipinti Aldobrandini, in parte confluita nella quadreria Borghese, deve essere stata l’occasione per creare una copia del dipinto, rimasto al ramo Doria Pamphilj, ancora e allora ritenuto originale di Tiziano. Da ciò, da un lato lo scarto stilistico tra le due versioni, dall’altro, al contrario, la somiglianza compositiva fin quasi alla sovrapposizione. In più, nella collezione Borghese il nostro esemplare è ricordato solo nel 1700. Montelatici registra infatti nella villa fuori porta Pinciana come sovraporta nella camera del Sonno (attuale sala X) un quadro “dove figurasi un giovinetto a sedere con una fanciulla, un’Eremita, & alcuni Amorini, che dormono”, aggiungendo la notazione “vien ricavato da Titiano”. Chiara dunque la notizia che il dipinto fosse una copia da Tiziano, ovvero, come ricorda l’Inventario Fidecomissario del 1833, “Il Passaggio della Vita dell’Uomo” di Sassoferrato.
L’attribuzione a Giovan Battista Salvi viene confermata nel 1893 da Adolfo Venturi, il quale giudica il dipinto una copia “fedele, ma fredda”, e non viene messa generalmente in discussione: tra le poche eccezioni Wethey - ignoto artista che pedissequamente copia la versione Doria Pamphilj - ed Herrmann Fiore (2000) la quale, assumendo le posizioni di Wethey, Russell, e Vitaletti, la rifiuta per motivi stilistici, ascrivendo il dipinto a pittore non noto.
L’attribuzione a Sassoferrato, sostenuta anche da Della Pergola (1955), potrebbe trovare invece conferma anche nei più recenti studi sul pittore, più o meno stabilmente a Roma dal 1629 alla morte, avvenuta nel 1685, che ritagliano una figura di artista ben apprezzato sul principio dell’Ottocento (Rosazza-Ferraris), dalla posizione socialmente ambigua, avvezzo al lavoro di copista, ma distinto dai “bottegari” per la qualità e abilità esecutive (Cavazzini). Nulla esclude quindi che queste sue capacità siano state impiegate per realizzare il dipinto Borghese, in cui il nitore delle forme e delle campiture di colore richiama la sua maniera.
Maria Giovanna Sarti