Questa tela, già attribuita a Francesco Vanni e a Rutilio Manetti, è stata recentemente restituita al catalogo di Ventura Salimbeni, appartenuta con molta probabilità a monsignor Torquato Perotti e passata in collezione Borghese entro il 1693. L'opera rappresenta le tre Grazie, divinità connesse al culto della natura e della vegetazione il cui abbraccio, allusivo alla triplice natura dell'Amore, rimanda a un gesto di offerta e di rendimento di grazie. Ad assistere alla scena, Eros e Anteros, ritratti rispettivamente in volo, armato di frecce, e giacente su un sasso dopo aver deposto l'arco e la faretra.
La provenienza di questo dipinto è tuttora incerta. Secondo Paola della Pergola (1959) giunse con buona probabilità in collezione Borghese nel 1607, insieme a molte altre opere sequestrate al Cavalier d'Arpino accusato dai fiscali di Paolo V di detenzione illegale di armi da fuoco. La studiosa, infatti, individuò questa teletta con il "quadretto con tre figure di Baccanali senza cornici" descritto genericamente nella lista dei beni sottratti all'artista arpinate, rimarcando però al contempo l'esistenza di un dipinto con soggetto analogo nell'inventario di Olimpia Aldobrandini del 1626, identificabile - sempre secondo Della Pergola (1959) - con le Tre Grazie di Raffaello Sanzio, oggi al Museo Condè di Chantilly.
Al di là di questa ipotesi, mai messa in discussione dalla critica, è certo che l'opera si trovasse nel 1693 presso Palazzo Borghese a Ripetta, come attestato dal relativo inventario, in cui il dipinto è elencato come "un quadruccio in tela alto un palmo e mezzo incirca con tre Donne nude che si abbracciano con un Amorino per aria che gli tira la frezza e un altro Amorino che dorme del n. 428 Cornice dorata di Anibal Caracci". Tale attribuzione, rivista nel 1790 a favore del Domenichino, fu corretta negli elenchi fidecommissari del 1833, dove le Tre Grazie furono assegnate al pittore senese Francesco Vanni, nome già fatto da Guglielmo della Valle nel 1786 e ripetuto negli anni da Basilius von Ramdhor (1787) e da Mariano Vasi (1792). L'assegnazione al Vanni fu accettata da tutta la critica (Piancastelli 1891; A. Venturi 1893; Brandi 1931), ad eccezione di Roberto Longhi (1928), che accostò il quadro a un manierista romano sui primi anni del Seicento; e di Hermann Voss che invece propose il nome di Rutilio Manetti, accolto da Paola della Pergola (1959) e da Alessandro Bagnoli (1978), ma rifiutato da Giancarlo Scavizzi in favore di Ventura Salimbeni (1959).
A mettere un punto alla questione è stato Marco Gallo che già nel 2010, dubitando dell'attribuzione a Rutilio Manetti, aveva scartato il nome di Manetti riesumando quello di Vanni. Lo studioso, poi, rivedendo la sua posizione, nel 2013 ha ricostruito la vicenda del dipinto, ipotizzandone la provenienza dalla raccolta di monsignor Torquato Perotti, dove la teletta figurava come opera di Ventura Salimbeni, segnalata nel 1633 in un madrigale pubblicato a Roma da Antonio Bruni (cfr. Gallo 2013). La tesi di Gallo - che quindi escluderebbe la provenienza del dipinto sia dalla collezione del Cavalier d'Arpino, sia da quella di Olimpia Aldobrandini - è stata di fatto avvalorata dalla recente scoperta sul mercato antiquario di una replica variata del dipinto Borghese (Dipinti antichi, Pandolfini Firenze, 13 novembre 2018, lotto 1), eseguita certamente da Salimbeni che siglò l'opera con il proprio monogramma sul sasso in basso a destra su cui giace - come nella versione Borghese - il paffuto amorino.
Come notato da Bagnoli (1978), la tela è connessa al gruppo scultoreo delle Tre Grazie della Libreria Piccolomini di Siena, combinata dal pittore - secondo Errwin Panofsky (1939) - con le figure di Eros e Anteros, rispettivamente raffigurati in volo, pronto a scagliare uno dei suoi temuti dardi, e addormentato su un sasso, dopo aver deposto l'arco e la faretra. Al centro, in un paesaggio eseguito alla maniera di Paul Bril profilato da un elegante gioco di luce (cfr. Bagnoli 1978), sono raffigurate le tre Grazie - Aglaia, Eufrosine e Talìa - associate nella mitologia greca e romana al culto della natura e della vegetazione, il cui abbraccio alluderebbe al tema della offerta e del rendimento di grazie (Wind 1971). Secondo la visione neoplatonica, invece, le tre divinità rappresenterebbero le tre facce dell'Amore - la Castità, la Voluttà e la Bellezza - legate pertanto al culto di Venere-Afrodite.
Antonio Iommelli