La tavola, documentata con certezza in collezione Borghese a partire dal 1833, fu dipinta da Michele Tosini in pendant con un'altra mezza figura raffigurante Leda (inv. 323). Rappresenta Lucrezia, leggendaria donna romana, la cui triste vicenda è legata alla cacciata dell'ultimo re di Roma. Come vuole la tradizione, infatti, violentata da Sesto Tarquinio, la donna si trafisse pubblicamente il petto con un pugnale, provando in tal modo la propria innocenza. Atterrito da questo gesto, il nobile Collatino, marito di Lucrezia, decise di vendicarla, guidando una sommossa popolare che costrinse i Tarquini a scappare da Roma e a riparare in Etruria.
Cornice ottocentesca decorata con loti e palmette (cm 89 x 67 x 9)
(?) Roma, collezione Bartolomeo Cavaceppi, 1787 (Hermann Fiore 2005); Roma, collezione Borghese, ante 1833 (Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 17; Della Pergola 1959). Acquisto dello Stato, 1902.
La provenienza di questo dipinto resta dubbia. Secondo un'ipotesi di Kristina Herrmann Fiore (Ead. 2005), il quadro entrò nella collezione pinciana nel 1787, anno in cui fu messa in vendita la strepitosa raccolta dello scultore Bartolomeo Cavaceppi. Tra i beni ceduti dall'artista alla famiglia Borghese vi furono due mezze figure, ossia "una Giunone e una Leda di Pierin del Vaga" (cfr. doc. 95 in Della Pergola 1959, p. 225; Campitelli 1994, p. 56), identificate dalla critica con la Leda (inv. 323) e il suo pendant, la Lucrezia in esame, quest'ultima erroneamente descritta come Giunone. Tale svista, secondo la critica (Herrmann Fiore 2005). è però giustificabile se si tiene conto che, a prima vista, con difficoltà si scorge la ferita mortale sotto al seno della protagonista.
Al di là di questa pista, certamente percorribile, le prime notizie certe sul dipinto risalgono al 1833, quando l'opera è descritta negli elenchi fedecommissari con il nome di Giorgio Vasari (Inventario Fidecommissario 1833). Tale attribuzione, ripetuta nelle schede di Giovanni Piancastelli (1891) e nel catalogo di Adolfo Venturi (1893), fu scartata sia dal Voss (Id. 1920), che preferì parlare di Francesco Brina, sia da Carlo Gamba (Id. 1929), che credibilmente pensò all'artista fiorentino Michele di Ridolfo il cui stile, influenzato dalla pittura classicheggiante di Frà Bartolomeo e di Andrea del Sarto, fu rivisto alla luce della sua collaborazione con Giorgio Vasari. Questo parere, accolto positivamente da Frederik Antal (Id. 1951) e da Roberto Longhi (Id. 1928), fu accettato senza riserve anche da Paola della Pergola (Ead. 1959) che nel catalogo dei dipinti della Galleria Borghese pubblicò le due figure come opere autografe del Tosini, accostandole per la prima volta alle teste femminili della Galleria degli Uffizi (a tal proposito cfr. Gamba 1929) e alla Notte della Galleria Colonna di Roma, dipinto che alla maniera vivace di Vasari fonde l'interesse per l'anatomia michelangiolesca.
A conferma dell'attribuzione al Tosini, sostenuta unanimemente dalla critica, Giovanna Rotondi Terminello (Ead. 1966) pubblicò un Ecce Homo rinvenuto presso la Casa Parrocchiale di Uscio, dipinto conforme alla coppia Borghese per il gonfiore degli occhi, la grafia nel disegnare la bocca e le pieghe cartonate dei copricapi. Tenendo conto di tali analogie, la studiosa propose di datare le due femmes Borghese intorno agli anni Sessanta del XVI secolo, periodo in cui il pittore fiorentino stava lavorando accanto al Vasari sugli spalti di Palazzo Vecchio a Firenze. In effetti, questo nesso con l'aretino, segno di un suo ravvicinamento alla cultura manieristica (cfr. Prosperi Valenti 1974), fu effettivamente alla base di una seconda maniera, evidente soprattutto nei dipinti eseguiti a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta del XVI secolo, oltre che nella sua produzione di mezze figure femminili, tra le quali rientrano le due tavole Borghese e numerosi ritratti (Meloni Trkulja 1994).
Come ben espresso dalla Herrmann Fiore (Ead. 2005) a proposito della Leda, questa Lucrezia, rappresenta un capolavoro della pittura fiorentina del settimo decennio del Cinquecento, la cui bellezza, eleganza e monumentalità sono qui esaltate nel delicato candore degli incarnati, nella resa delle stoffe e dei monili, nonché nell'elaborata acconciatura che tradisce una chiara conoscenza dei disegni di Michelangelo Buonarroti (Uffizi, n. 598r; cfr. Herrmann Fiore 2005). Inoltre, la visione ravvicinata del mezzobusto, rivolto verso lo spettatore, rivelerebbe secondo la studiosa una certa confidenza con la pittura veneta, qui fusa con un attento uso del colore, vicino ai modelli di Francesco Salviati.
Tuttavia l’idea di rappresentare questo soggetto lontano dagli esempi più ammiccanti ed erotici prodotti fino a quel tempo, induce a spostare ulteriormente la sua esecuzione verso la fine degli anni Sessanta del XVI secolo, quando ormai le conseguenze della Controriforma attecchirono con successo. L'opera, infatti, sembra incarnare quanto esposto da Giorgio Vasari a proposito di Tosini e della sua morigeratezza («quello che in lui mi piace sommamente, oltre che essere egli veramente uomo da bene, costumato e timorato di Dio, si è che sempre ha in bottega buon numero di giovinetti ai quali insegna con incredibile amorevolezza»; Vasari 1568, ed. 1964, pp. 340, 389), un aspetto sicuramente molto apprezzato dai perbenisti dell'epoca che ben guidò il pittore nell'esecuzione attenta e misurata della presente eroina, qui ritratta come una donna sofisticata e virtuosa, che pudicamente mostra uno dei seni con il segno della ferita mortale.
Antonio Iommelli