L’opera, variamente attribuita in passato a Perugino, Bronzino e a Jacopino del Conte, è stata definitivamente restituita al catalogo dell'artista pistoiese Leonardo Grazia, nome con cui è segnalata per la prima volta in collezione Borghese nel 1650. Il dipinto, un olio su lavagna, raffigura Lucrezia, moglie di Collatino, celebrata dagli antichi romani come modello di virtù e fedeltà coniugale. Secondo la tradizione, infatti, la donna si pugnalò a morte davanti al marito dopo essere stata violentata da Sesto Tarquinio, figlio di Tarquinio il Superbo, provocando la caduta della monarchia.
Salvator Rosa( cm 68 x 56 x 6.5)
Roma, collezione Borghese 1650 (Manilli 1650); Inventario 1693, Stanza I, n. 44; Inventario 1790, Stanza III, n. 20; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 19. Acquisto dello Stato, 1902.
Questo dipinto è attestato in collezione Borghese a partire dal 1650, segnalato nella guida di Iacomo Manilli come opera 'del Pistoia', alias Leonardo Grazia, pittore pistoiese attivo tra Roma, Napoli e la Toscana nella prima metà del Cinquecento. Tale attribuzione, ignorata dall'estensore dell'inventario del 1693, dove l'opera figura come 'Incerto', fu rivista prima in favore del Perugino (Inv. 1790) e successivamente - negli elenchi fedecommissari (1833), nelle schede di Giovanni Piancastelli (1891) e nel catalogo di Adolfo Venturi (1893) - come 'opera del Bronzino'.
Il dibattito sulla paternità del dipinto continuò per tutta la prima metà del Novecento, fluttuando dal Bronzino (Morelli 1874) al Pontormo (Berenson 1909), da Baldassare Peruzzi (Longhi 1928) a Jacopino del Conte. Quest'ultima attribuzione, proposta da Paola della Pergola (1959) - secondo cui il modo tagliente di segnare i contorni e le lunghe dita della mano riportano nella cerchia del pittore fiorentino - è stata accettata tra gli altri da Kristina Herrmann Fiore (2006) ma rivista debitamente in favore del Pistoia da Pierluigi Leone de Castris (1988) che ha collocato l'opera, assieme alla Venere nuda (inv. 92) e alla Cleopatra (inv. 337), entrambe in collezione Borghese, al periodo romano. Tale nome, sottovalutato dagli studiosi nonostante la voce autorevole di Manilli (1650), è stato accettato da tutta la critica (De Marchi 1994; Id. in Pietra dipinta 2000; Id. 2014; Bisceglia 1996; Donati 2010) e, di recente, da Michela Corso (2018a; 2018b) che, approfondendo il sodalizio ricordato da Giovanni Baglione tra Jacopino e Leonardo, ha rintracciato nell'opera Borghese quei vocaboli tipici del linguaggio figurativo dell'autore che confermano la sua adesione ai modi di Giulio Romano, di Perin del Vaga e del Parmigianino, filtrati in risposta alla produzione di Jacopino e del Bronzino.
Come suggerito da Roberto Cannatà (2002), questo dipinto su lavagna mostra un gusto semplificativo della forma 'dalla lucidità alabastrina e dai contorni un po' duri' (Id. 2001) che, insieme alla perfezione fredda e sonante del colore, tinge le opere realizzate dal Grazia intorno all'ultimo decennio capitolino, ossia prima del suo trasferimento alla corte di Napoli, dove fu attivo agli inizi degli anni Quaranta. Le sue opere, infatti, pregne dell'influenza raffaellesca mostrano quella grazia edulcorata e quella sensualità elegante e composta, riscuotendo un grande successo tra Roma e il Napoletano.
L'opera rappresenta Lucrezia, famosa eroina romana, ritratta da sola, contro un fondo scuro, completamente sganciata dal tessuto narrativo descritto dagli antichi (Corso 2018b). La protagonista, inoltre, è presentata immobile, con lo sguardo fermo mentre ostenta la lama, forse così voluta dalla stessa committenza chiedendo all'artista di non enfatizzare il gesto del suicidio, un atto contrario alla morale cristiana (Ead.).
Antonio Iommelli