Il dipinto, firmato e datato, potrebbe appartenere alla originaria collezione del cardinal Scipione. Nella tavola, con cornice originale, sono evidenti riferimenti a pittori veneti, quali Giovanni Bellini e Cima da Conegliano, così come forte è la ripresa di Dürer, attivo a Venezia nel 1506. Nulla si conosce sulla provenienza del dipinto, forse eseguito durante il soggiorno a Recanati (1506-08), oppure nel corso di quello romano iniziato alla fine del 1508, quando Lotto è attivo nelle Stanze Vaticane. La presenza dei due religiosi Ignazio di Antiochia e Onofrio è stata avvicinata alle idee riformatrici del tempo, che li proponevano come modelli di imitazione.
Collezione di Scipione Borghese, ante 1620 (?). Acquisto dello Stato, 1902.
Il dipinto viene citato nell’inventario Borghese risalente al 1693, al n. 48 ma, come suggerisce De Giorgio (2019) potrebbe essere entrato a far parte della collezione di Scipione molto prima e grazie ai buoni rapporti che egli intratteneva con Agostino Galamini, vescovo della città di Recanati dal 1613 al 1620. Infatti, nonostante non si conosca la precisa provenienza della tavola, datata al 1508, la sua realizzazione ci riconduce al contesto del soggiorno marchigiano nel recanatese (1506-1508), nel tempo tra la fine di questo e il primissimo periodo romano. La Madonna in una posa disinvolta regge un Bambino avvolto in una candida veste bianca mentre si sporge, con un movimento «molto ingenuo» (Morelli 1897, pp. 238-239), a benedire il cuore a lui porto da Ignazio di Antiochia; la Vergine ha invece lo sguardo rivolto verso Onofrio in preghiera (cfr scheda catalogo 2021).
La tavola dimostra una raggiunta maturità da parte del maestro veneto, al tempo ventottenne, in grado di equilibrare, con assoluta armonia, i diversi riferimenti culturali individuabili nell’opera. Il fondo monocromo e scuro, oltre a delineare con nettezza i contorni delle figure, caratteristica tipica di quella ‘calligrafia’ tedesca cara al pittore, mette in evidenza la firma e la data (Laurent. Lotus M.D.VIII) rimandando alla conoscenza del grande pittore ed incisore tedesco Albrecht Dürer, tra il 1505 e il 1507 di stanza a Venezia. Nonostante questi caratteri marcatamente nordici, la simmetria e l’equilibrio compositivo saldano l’opera del giovane maestro alla tradizione del Rinascimento veneto, con evidenti influenze che da Giovanni Bellini (Humfrey 2006), arrivano fino a Cima da Conegliano e Alvise Vivarini (Berenson 1932).
La lettura allegorica della scena sembra rimandare ad un tema caro al pittore, ossia la contrapposizione tra la vita contemplativa, personificata da Onofrio eremita spoglio, e la vita attiva, simboleggiata da Ignazio riccamente vestito; antitesi, questa, trattata già dal pittore nella Pala di Asolo: Lotto risponde con le immagini affermando l’impossibilità di scissione delle due.
Il dipinto, valorizzato dalla raffinata cornice coeva, viene citato in una nota di pagamento piuttosto confusa al doratore Annibale Durante: il soggetto risulta errato mentre la cornice, «negra col battente dorato», e le dimensioni, sembrano combaciare (Della Pergola 1959, p. 117). L’anonimo estensore descrive una Madonna col san Giovannino, quest’ultimo assente nella nostra composizione. La tavola non è presente nell’inventario Borghese degli anni Trenta del Seicento e non viene citata neanche da Giacomo Manilli nella sua guida di Villa Borghese del 1650. Come già accennato il dipinto appare per la prima volta nell’inventario Borghese del 1693 seppur anche qui la descrizione iconografica risulti piuttosto sorprendente: infatti il cuore ferito in cui è inciso il trigramma di Cristo, attributo di sant’Ignazio di Antiochia, viene scambiato con una ‘pagnotta’: «un quadro di due palmi e mezzo incirca bislongo con la Madonna, il Bambino che benedice una pagnotta a San Nicola e con Sant’Honofrio del N. 193 con lettere Laurentius Lotus con 1508 in tavola con cornice dorata» (inv. 1693, n. 48). Il cuore, inciso qui con lettere in rosso e non in oro come di tradizione, è dunque fulcro della composizione nonché novità iconografica del tempo in quanto la sua offerta al Bambino non sembra avere precedenti nella storia dell’arte (De Giorgio 2019).
Dal suddetto inventario inoltre emerge l’interpretazione del santo vescovo come san Nicola. La figura del santo alla destra della Vergine è stata infatti individuata con difficoltà: varie sono le letture, da san Nicola (Biagi 1942; Pignatti 1953) a san Flaviano (Lattanzi 1985; De Giorgio 2019), santo caro alla devozione recanatese, secondo una tesi fondata principalmente su basi teologiche letterarie, mentre negli ultimi anni si è riconosciuto nel santo riccamente abbigliato il patrono della città di Antiochia, sant’Ignazio, per i tradizionali attributi quali innanzi tutto il cuore ferito ma anche il baculo pastorale parzialmente visibile, la palma nella mano destra e l’abito vescovile.
Non è stato completamente chiarito il problema di una conoscenza diretta dell’opera di Dürer da parte di Lotto, sebbene se ne possano riscontrare tangenze notevoli. La tavola Borghese vive una certa vicinanza con il Cristo tra i dottori del maestro tedesco (cfr. Dal Pozzolo 1999), soprattutto nel grafismo e parzialmente nei toni cromatici. Del resto il sant’Onofrio lottesco, come sottolineavano già Berenson (1955 p. 25) e Della Pergola (1959, p. 117), sembra essere una versione ‘italiana’ dello scriba düreriano. Il Bambino, inoltre, dimostra familiarità, sia fisica che dinamica, con uno dei putti nell’incisione di Dürer Strega sulla capra e quattro putti (1505 circa), ma anche con il san Giovannino nella Madonna del Lucherino (1506). A differenza del dipinto di Dürer, la cui superficie risulta occupata quasi interamente dalle figure, la tavola lottesca mostra una composizione organicamente ripartita, seppure nell’astrazione data dal fondo nero. I colori creano campiture larghe e contrastanti con cromie fredde e acide, dimostrando una certa vicinanza con il coevo Polittico di Recanati, terminato nello stesso 1508, validando ulteriormente il riferimento al periodo marchigiano. La totale assenza di spazialità viene “messa in risalto dalla firma dell’artista […] posta sulla superficie” (Humfrey 1997) coniugando caratteri tipicamente veneti a un vivo ricordo dell’esperienza recanatese: ci si chiede se una tale autonomia espressiva non possa ricondurre alla “quiete di un ‘borgo selvaggio’ marchigiano piuttosto che nel clangore culturale dell’Urbe”, come ipotizzato da Morelli (1897).
Il dipinto, non facente parte del fidecommisso ma dell’eredità libera, venne incluso nella vendita allo Stato in cambio, con altri, del Ritratto di Cesare Borgia.
Gabriele de Melis