Il dipinto è solitamente messo in relazione con il dono, testimoniato da una lettera del 1607, elargito dal patriarca di Aquileia al cardinale Scipione Borghese. L’opera cattura l’attenzione dell’osservatore sia per la composizione particolarmente studiata in cui si erge monumentale la figura del Battista, sia per il taglio prospettico articolato su tre piani diversi. La scelta di una tavolozza brillante e la stesura fluida del colore fanno di questo dipinto uno degli esiti più felici della produzione matura di Paolo Veronese, databile per ragioni stilistiche intorno al 1562.
Cornice ottocentesca decorata con palmette.
(?) collezione Francesco Barbaro, ante 1607; (?) Roma, collezione Scipione Borghese, 1607 (Arch. Gall. Borghese A I/18); citata ivi in Francucci (1613); Manilli (1650); Montelatici (1700). Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 7. Acquisto dello Stato, 1902.
In alto al centro, sul cartiglio avvolto alla croce: ECCE [AGNVS DEI, ECCE QVI TOLLIT PECCATUM MVNDI].
Gli studi hanno finora messo in relazione l’opera con una lettera che il patriarca di Aquileia Francesco Barbaro inviò da Udine a Scipione Borghese il 5 settembre del 1607. Nella lettera si legge: «Mi consolo in estremo che l’opera di Paolo Veronese le sia piaciuta. Procurerò senza intermissione alcuna di provedere d’altra cosa alla virtuosa et degna dilettatione di V. S. Ill.ma». Come fa notare Della Pergola (1955), il soggetto del dipinto non è specificato e nell’attuale collezione si conserva un’ulteriore opera del Caliari, la Predica di Sant’Antonio ai pesci (inv. 101), ma nella letteratura su Veronese si lega generalmente il riferimento della lettera alla Predica del Battista e si ritiene che anche il secondo dipinto sia confluito nella collezione Borghese per donazione dello stesso patriarca.
La Predica del Battista viene descritta in versi da Scipione Francucci nelle ultime due strofe del quarto canto del poemetto in ottava rima, risalente al 1613, La galleria dell’Illustris.mo e Rev.mo S. Scipione cardinale Borghese (Francucci 1613). La menzione di un «S. Giovanni, che predica alle turbe», dunque, da parte di Carlo Ridolfi «Presso il Signor Prencipe Ludovisio» (Ridolfi 1648) è ritenuta un errore del biografo (Della Pergola 1955; Salomon 2014) replicato da Bartolomeo Dal Pozzo (1718) settant’anni dopo.
Nonostante l’attribuzione di questo dipinto al Veronese risalga al Seicento col Francucci (1613) e tale rimanga fino all’Ottocento col Caliari (1888), Morelli (1897) tendeva ad ascriverla a Giovan Battista Zelotti e come lui poi anche Rusconi (1906), Berenson (1907) e Muñoz (1909). La restituzione del dipinto al Veronese si deve a Hadeln all’inizio del Novecento (1911), accolta dallo stesso Berenson qualche anno più tardi (1932), e da quel momento rimane immutata.
Si è pensato che il dipinto, per le sue dimensioni, fosse una pala d’altare (Rearick 1988; Solomon 2014) e che la sua esecuzione debba legarsi allo zio di Francesco Barbaro, il patriarca e umanista Daniele Barbaro, già committente del Veronese in più occasioni, tra cui quella della decorazione ad affresco della villa a Maser (Rearick 1988; Biferali in Marini, Aikema 2014). Xavier F. Salomon (2014) suggerisce l’ipotesi che il dipinto fosse destinato ad una cappella intitolata a Giovanni Battista, dedicatario da spiegarsi forse col nome del committente. Lo stesso Salomon ritiene difficile una connessione diretta tra il soggetto dell’opera e la famiglia Barbaro e sottolinea come rimanga da chiarire, se il dipinto in questione è effettivamente quello inviato a Roma nel 1607, attraverso quali vie il patriarca di Aquileia sia entrato in possesso dell’opera.
Il dipinto illustra l’esatto momento, narrato nei Vangeli (Giovanni 1:29), in cui Giovanni Battista predica alle folle e indica Gesù Cristo dicendo «Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie i peccati del mondo», parole fissate in latino sul cartiglio che avvolge il bastone cruciforme (ECCE [AGNVS DEI]). La composizione della scena è stata pensata dal pittore in modo da concentrare l’attenzione sul Battista, la cui figura si staglia al centro per quasi tutta la lunghezza del dipinto con una posizione di contrapposto che sembra essere l’esito delle stesse riflessioni che informano il Giovanni Battista del Battesimo di Cristo e due committenti della chiesa del Redentore a Venezia (Arslan 1936; Marini 1968). Il baricentro spostato del corpo del predicatore – che agli occhi di Adolfo Venturi appariva appoggiato all’albero (Venturi 1893) – e il gesto enfatico dell’indigitazione, tutto costruito sullo scorcio, segnano una diagonale che, passando dai volti dei leviti in alto a destra sino al Cristo sullo sfondo, accentua il senso di profondità spaziale già restituito dalla sovrapposizione di piani diversi, scanditi dall’alternarsi dei tronchi d’albero (Pallucchini 1939) e dalla donna in basso a destra. La scena, dunque, è attraversata da un movimento inquieto e indagatore, provocato dalle parole appena pronunciate dal Battista che effondono curiosità tra gli astanti: la figura muliebre si volta di scatto ad ascoltare; tra i sacerdoti, uno è assorto nel pensiero di ciò che è stato da poco annunciato, gli altri due sono intenti a cercare un confronto o a mantenere, con fare guardingo, il contatto visivo del predicatore che nel frattempo incede verso l’osservatore. L’atmosfera più luminosa e il vuoto che viene a crearsi attorno all’apparizione di Cristo risaltano maggiormente il gruppo in primo piano: l’intonazione drammatica già ordita attraverso la gestualità delle figure viene così intensificata dal contrasto cromatico, nonché dalla differenza di stesura pittorica che si fa meno controllata quanto più interessa lo sfondo. Il colore, forse sotto tono per la vernice ingiallita, è esplorato dal Caliari nelle gamme più intense e brillanti, restituite con una materia fluida e con delle pennellate rapide e vibranti che lumeggiano e implementano la varietà della tavolozza: nella descrizione degli abiti orientali, ad esempio, è evidente come l’inclinazione all’ornamento sia il pretesto per il pittore per arricchire di soluzioni cromatiche il dipinto, tanto da indurre Adolfo Venturi (1929) a giudicare quest’opera «tra le maggiori creazioni di Paolo per coloristica audacia». Per queste ragioni il dipinto è per lo più collocato dagli studi ai primi anni Sessanta del Cinquecento, non lontano dall’esperienza da frescante a Maser.
Secondo Rearick (1988), la morte del presunto committente Daniele Barbaro, avvenuta nel 1570, costituirebbe l’ante quem del dipinto ed è possibile che il nipote Francesco, una volta ereditata parte della collezione dello zio, abbia deciso di ingraziarsi il favore di Scipione Borghese donando i due dipinti del Veronese che attualmente si conservano presso il museo. Cocke (1989) spinge invece la datazione dell’opera agli anni Ottanta inoltrati perché vede la Predica del Battista vicina alla pala di San Pantalon, commissionata nel 1587, e ipotizza allora che Francesco Barbaro abbia avuto tra le mani il dipinto grazie al padre Marcantonio e non allo zio Daniele. La proposta di Cocke si scontra però con l’evidenza formale che attiene al dipinto Borghese, il cui colore non è ancora così liquido e sfrangiato come nella produzione estrema del pittore. Osmond (1927) propende a datare l’opera al 1570; Pignatti e Pedrocco (1995), seguiti da Salomon (2014), fissano una cronologia intorno alla metà dello stesso decennio, in forza del confronto con il paesaggio del Seppellimento di Cristo di Ginevra; Biferali (in Marini, Aikema 2014) colloca l’opera tra il 1565 e il 1570. Pallucchini (1984) ha proposto una data intorno al 1562, subito dopo la decorazione di villa Barbaro, con la quale il dipinto condivide la medesima freschezza cromatica. La tesi di Pallucchini, peraltro, ben si accorda con il confronto tra la figura del Battista della Galleria Borghese e quella della pala della chiesa del Redentore a Venezia, in quanto quest’ultima è generalmente datata intorno al 1561, anno in cui la cappella viene dedicata a san Giovanni Battista da Bartolomeo Stravazino (Arslan 1936; Marini 1968). Del resto, affinità stilistiche sono riscontrabili tra la tela Borghese e opere datate con certezza nello stesso giro di anni: si notino le prossimità nella resa degli abiti e in particolare dei turbanti con le Nozze di Cana del Musée du Louvre di Parigi, commissionato nel 1562 e finito nel 1563 (Marini, Aikema 2014, p. 372), nonché la consentaneità ai dipinti realizzati nel 1562 per l’abbazia di San Benedetto Po, presso Mantova. Simile è infatti la descrizione delle fronde degli alberi, in primo piano e sullo sfondo, che è possibile osservare nella Madonna col Bambino e i santi Antonio Abate e Paolo l’eremita del Chrysler Museum of Art di Norfolk e nella Consacrazione di san Nicola della National Gallery di Londra. Pallucchini (1984) ha fatto inoltre notare come la figura con turbante all’estrema sinistra nel dipinto londinese sia identica, ma rovesciata, a quella che invece nella Predica del Battista si trova a destra. Lo stesso potrebbe dirsi della forte vicinanza tra la figura femminile genuflessa del dipinto Borghese e il servitore con anfora che si trova nella parte sinistra delle Nozze di Cana. Tutti questi elementi vanno a favore dell’idea di Pallucchini che sembra essere la più ragionevole e che qui si intende accogliere.
Emiliano Riccobono