L’opera rappresenta una giovane donna di ignota identità, raffigurata in abito scuro, con una cuffietta sul capo e un fazzoletto bianco tra le mani. Il dipinto è attestato nella collezione Borghese a partire dall’inventario del 1693, dove compare con l’attribuzione a Tiziano. Alla fine dell’Ottocento, Giovanni Morelli assegnò l’opera a Giorgione, nome ripreso da molti studiosi successivi che la ritennero autografa o di un seguace. Ad oggi l’attribuzione più convincente è quella a Bernardini Licinio, artista formatosi sull’arte di Giovanni Bellini e Giorgione e soggetto alle influenze della ritrattistica di Palma il Vecchio e Tiziano. L’opera è databile al secondo o terzo decennio del Cinquecento.
Salvator Rosa cm 115 x 96 x 7
Inventario 1693, Stanza V, n. 4; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 36. Acquisto dello Stato, 1902.
Il dipinto, di ignota provenienza, compare per la prima volta nell’inventario Borghese del 1693, descritto come “ritratto di una Donna che tiene un fazzoletto in mano del N. 60 con cornice dorata liscia intagliata di Tiziano”. Il quadro è stato poi individuato nel successivo elenco fidecommissario (1833) alla voce “Retratto, della scuola di Raffaelle, largo palmi 3; alto palmi 4 1/2”.
Nel catalogo della collezione redatto da Della Pergola (1955, pp. 114-115, n. 204), la studiosa definisce l’opera un vero e proprio rompicapo per i critici, in particolare dell’arte veneta, al cui ambito ne è stato spesso ricondotto l’autore. Morelli (1897, pp. 250-251) ne propone l’assegnazione a Giorgione, anche per via della cuffia di colore giallo-bruno sul capo della donna, che lo studioso mette in relazione alle prime di opere di Tiziano. Il nome è largamente condiviso, con alcune vistose eccezioni (Venturi 1913, pp. 259-260; Longhi 1928, p. 190), ma il riferimento all’artista o a un suo seguace permane almeno fino ai tardi anni Cinquanta del Novecento (per un riepilogo delle posizioni cfr. Della Pergola, cit.).
Attualmente l’attribuzione più convincente è quella a Bernardino Licinio, avanzata per la prima volta da Wickhoff, seguito da Fiocco (1941, p. 38), e ripresa più avanti da Pignatti (1969, p. 32; 1978, p. 138). Il nome di Licinio è accostato all’opera anche nei più recenti cataloghi della collezione Borghese (Stefani 2000, p. 275; Herrmann Fiore 2006, p. 50). Già Della Pergola (cit.), pur catalogando il dipinto sotto “seguace di Giorgione”, rilevava stringenti affinità con altre opere dell’artista, come il Ritratto di Ottaviano Grimani conservato al Kunsthistoriches Museum di Vienna.
I tratti di naturalismo e compostezza che caratterizzano la rappresentazione di questa donna dall’identità sconosciuta richiamano alla mente i protagonisti del Ritratto della famiglia del fratello, opera firmata e attestata nella collezione di Scipione Borghese fin dal 1613, tuttora conservata in Galleria (inv. 115). La giovane donna è raffigurata in un abito scuro, adornato da un merletto bianco sul bordo dello scollo, e i capelli raccolti nella cuffia. L’immagine è di estrema sobrietà, ma alcuni elementi, come il fazzoletto bianco e l’anello al dito della mano sinistra, lasciano ipotizzare che l’effigiata appartenesse ad un alto ceto sociale.
Pier Ludovico Puddu