Attestata in collezione Borghese solo a partire dal 1893, questa tavola rappresenta la figura di una donna riccamente vestita mentre tiene tra le mani un vassoio con una testa mozzata. L'ambiguità del soggetto, variamente identificato con Giuditta o Erodiade, non è stata ancora chiarita: entrambe infatti - insieme alla giovane Salomè - sono tradizionalmente ritratte accanto al macabro trofeo.
Salvator Rosa (cm 66 x 53,5 x 6)
Roma, collezione Borghese, 1893 (Venturi 1893, p. 92). Acquisto dello Stato, 1902.
La data di ingresso di questo dipinto nella raccolta Borghese è tuttora ignota. La tavola, infatti, risulta assente sia negli inventari borghesiani sei-settecenteschi, sia nell'elenco fidecommissario del 1833.
Le sue prime notizie risalgono al 1893, anno in cui Adolfo Venturi cita la tavola come opera di scuola fiorentina, parere poco dopo respinto da Bernard Berenson (1936) che dal canto suo parla invece di Giulio Campi. Allontanatosi completamente da tali giudizi, nel 1928 Roberto Longhi situa il dipinto nella sfera palmesca, ambito a sua volta scartato da Paola della Pergola (Ead. 1955) che, parlando di 'Ignoto', posticipa l'esecuzione del quadro al XVII secolo.
Oltre alla paternità, diversi dubbi persistono anche sul soggetto. La presenza di una testa mozzata, infatti, ha fatto pensare che la donna ritratta possa essere Giuditta, l'impavida vedova di Betulia che con una scimitarra recise la testa del generale Oloferne (Della Pergola 1955); oppure Erodiade, (Herrmann Fiore 2006) la corrotta amante di Erode Antipa che, stando ai Vangeli, chiese alla giovane figlia di farsi portare su un vassoio d'argento la testa di Giovanni Battista.
Il dipinto, forse più antico di quanto ipotizzato, fu probabilmente eseguito nel secondo decennio del XVI secolo, realizzato da un pittore lombardo a metà strada tra i modelli veneto-giorgioneschi e la coeva produzione di Girolamo Romani detto il Romanino. Ciò, di fatto, sembra trovare una conferma nella recente attribuzione di un'identica Salomè, conservata nel Museo di Castelvecchio di Verona (inv. 5251-1B744), già attribuita al lodigiano Callisto Piazza e ora - seppur con molte riserve - restituita a Francesco Prata da Caravaggio (F. Rossi, in Museo di Castelvecchio 2010), un artista poco noto, documentato tra il 1513-23 nel Bergamasco, cui in questa sede si ipotizza di avvicinare l'opera in esame.
Per quanto concerne il soggetto, l'idea di raffigurare il macabro trofeo su un piatto metallico - o una coppa, come nella versione veronese - fa pensare più a una classica rappresentazione della bella e giovane Salomè piuttosto che ad un dipinto raffigurante Erodiade o Giuditta, quest'ultima solitamente ritratta con una spada e in compagnia di una serva.
Antonio Iommelli