Ritratto di Uomo (Mercurio Bua ?)
(Venezia 1480 - Loreto 1557)
Il personaggio, a lungo ritenuto un autoritratto dell'artista, è raffigurato all'interno di un ambiente chiuso, la cui parete di fondo è interrotta da una finestra aperta su un paesaggio dove si distinguono il profilo di una città e una scena cavalleresca. Il gentiluomo veste un abito nero sul quale assumono particolare risalto le mani; la destra è poggiata su una natura morta composta da un mucchietto di petali di rosa e da gelsomini fra i quali spicca un piccolo teschio. Alcuni studi propongono che il personaggio raffigurato possa identificarsi nel conte Mercurio Bua, di origine greca, divenuto condottiero della Serenissima e trasferitosi con il suo seguito a Treviso, città della quale sarebbe possibile scorgere il profilo sullo sfondo del paesaggio. La rappresentazione di S. Giorgio, raffigurato con il drago nel paesaggio, è legata all'origine greca del condottiero, devoto al Santo cavaliere. La situazione di lutto, richiamata dalle due fedi nuziali, dagli abiti neri e dal copritavolo verde, colore all'epoca adottato in tali circostanze, trova pieno riscontro nelle vicende della sua vita, segnata dalla scomparsa delle sue due mogli e di due figlioli, di cui uno, al quale forse allude il piccolo teschio, generato dalla prima, amatissima consorte e perduto ancora in fasce.
Scheda tecnica
Inventario
Posizione
Datazione
Tipologia
Periodo
Materia / Tecnica
Misure
Provenienza
Roma, Collezione Borghese (citato nell’inv. 1693, StanzaV, n. 34); Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 11. Acquisto dello Stato, 1902.
Mostre
- 1953 Venezia, Palazzo Ducale
- 1983-1984 Londra, Royal Academy of Arts
- 1986 San Pietroburgo, Hermitage
- 1987-1988 Roma, Palazzo Barberini
- 1988 Sidney, Art Gallery of New South Wales
- 1998 Parigi, Galeries Nationales du Grand Palais
- 1998 Bergamo, Accademia Carrara
- 2004-2005 Roma, Scuderie del Quirinale
- 2005 Mosca, Museo Puškin
- 2006-2007 Parigi, Musée du Luxembourg
- 2011 Roma, Scuderie del Quirinale
- 2015 Roma, Castel Sant’Angelo
- 2017 Roma, Museo Nazionale di Castel Sant'Angelo
- 2017 Roma, Palazzo Barberini
- 2018 Madrid, Museo Nazionale Del Prado
Londra, The National Gallery
- 2023-2024 Monaco, Alte Pinakothek
Conservazione e Diagnostica
- 1932 Pico Cellini
- 1947 Carlo Matteucci
- 1983 Cinzia Conti
- 1985-1988 Anna Maria Marcone; Rolando Dionisi (Laboratorio di restauro Palazzo Barberini)
Opera attualmente non espostaIn esposizione temporanea alla Galleria Nazionale d'Arte Antica per la mostra "Raffaello, Tiziano, Rubens. Capolavori dalla Galleria Borghese a Palazzo Barberini"
Scheda
Il personaggio è raffigurato all'interno di un ambiente chiuso, la cui parete di fondo è interrotta da una finestra aperta su un paesaggio dove si distinguono il profilo di una città e una scena cavalleresca.
Nell’inventario Borghese del 1790 il dipinto è ricordato sotto il nome di Pordenone, col quale rimase menzionato fino alla proposta di Mündler del 1869, di identificarne l’autore in Lorenzo Lotto (Mündler 1869, p. 58). Anche in precedenza il dipinto era ricordato sotto il nome di Pordenone (Inv., 1693, St.V, n. 34), senza informazioni circa il soggetto rappresentato. Nonostante questo, Della Pergola ritiene il soggetto possa essere un autoritratto di Lorenzo Lotto, riconoscendolo in quello elencato dapprima in collezione di Ippolito Aldobrandini nel 1611 (Della Pergola 1955, I, p. 117; Castria Marchetti 2006), poi confluito nel 1638 tra i beni della nipote Olimpia Aldobrandini. All’interno dell’inventario redatto nel 1682 è infatti ricordato «un quadro in tela ritratto di Lorenzo Lotti alto palmi quattro incirca di mano del medemo come ha detto Inventario N° 246 et a quello del Sig.r Card.le Carta 125» (Della Pergola, 1955, pp. 117-118). Il successivo matrimonio di Olimpia, dapprima con Paolo Borghese e alla morte di questi con Camillo Pamphilj, fu alla base della divisione dell’eredità della nobildonna tra i due figli Gian Battista Borghese e Gian Battista Pamphilj. Oltre che sulla notazione inventariale, la proposta di Della Pergola si basa anche sulla presunta somiglianza con l’effigie di Lotto nella xilografia contenuta nella prima edizione delle Meraviglie dell’arte di Carlo Ridolfi nel 1648.
La tesi è successivamente smentita su basi iconografiche da Gentili (Gentili, Ricciardi 1988, pp. 415-424) che riteneva gli anelli portati al mignolo dall’uomo essere di vedovanza, in contrasto quindi con la biografia di Lotto.
Puppi ha proposto, con scarso seguito, di identificare il soggetto con il filosofo dell’occulto Giulio Camillo Delminio, che Lotto ha frequentato a Venezia (Puppi 1981, p. 398). Il gentiluomo, dalla cui espressione emana un sentimento di struggente malinconia, veste un abito nero, sul quale assumono particolare risalto le mani: l'una, recante al mignolo come detto due verette nuziali, è tenuta al fianco; l'altra, ornata al pollice da un anello con uno stemma cruciforme in campo azzurro, si appoggia su una simbolica natura morta, composta da un mucchietto di petali di rosa e gelsomini, fra i quali spicca un piccolo teschio. Secondo lo studio di Maria Luisa Ricciardi (1989, pp. 85-106) il soggetto raffigurato è il conte Mercurio Bua, condottiero albanese al servizio della Serenissima, trasferitosi con il suo seguito a Treviso, città che è stato proposto fosse rappresentata sullo sfondo del paesaggio e dove il condottiero fondò una Cappella dedicata a San Giorgio in Santa Maria Maggiore nella quale infine fu sepolto.
L’origine orientale dell’effigiato spiega la devozione per San Giorgio, santo guerriero raffigurato con il drago nel paesaggio. Secondo la tesi di Béguin (Le siécle 1993), la situazione di lutto, richiamata dalle due fedi nuziali, dagli abiti neri e dal copritavolo verde, colore all'epoca adottato in tali circostanze, troverebbe pieno riscontro nelle vicende della sua vita, segnata dalla scomparsa delle sue due mogli, di cui la prima, Maria Boccali, nel 1524 e la seconda, Elisabetta dei Balbi, poco tempo dopo. A queste, si sommano le perdite di altri due figlioli, di cui uno generato dalla prima, amatissima consorte e perduto ancora in fasce. La presenza del teschio è forse allusiva alla dolorosa perdita o ad una più generica allusione alla caducità della vita, in funzione quindi di memento mori.
Una datazione del dipinto è genericamente ritenuta valida intorno al 1530 (Banti-Boschetto 1953, p. 84; Zampetti 1953, p. 136; 1980, p. 178, n. 48; Mariani Canova 1975, p. 113; Caroli in Lorenzo Lotto 1998, p. 198).
Una diversa lettura degli elementi iconografici è stata proposta da Lucco (1994, pp. 45-46) e Humfrey (1997, pp.136-138; 1998, pp. 197-199, n. 42), che ritengono la nascita di Mercurio Bua nel 1478 incoerente con l’età dell’effigiato intorno al 1535. Secondo Humfrey, il soggetto non sarebbe da riconoscere quindi nel condottiero albanese, ma in un comandante incontrato dall’artista tra il 1533 e il 1539, il cui nome sarebbe da riferire a quello del santo guerriero sullo sfondo (Falomir Faus 2018, p. 298). Ad essere messo in discussione è inoltre il riconoscimento dell’opera con quello elencato nell’inventario Aldobrandini, poiché quello in collezione non è «alto palmi quattro incirca», corrispondenti a circa novanta centimetri, ma di maggiori dimensioni. Lo studioso rileva infine come il paesaggio, svincolato dal nome di Mercurio Bua, non sarebbe più quello di una città concreta, quanto l’evocazione di Silena, cittadina libica, dove è tradizionalmente collocato l’episodio di San Giorgio che libera la principessa.
Circa la datazione dell’opera, la forbice della critica è tra il 1529 (Della Pergola, 1955, pp. 117-118), intorno al 1530 (Banti, Boschetto 1953; Berenson 1955; Mariani Canova 1975; Caroli 1980), primi anni Trenta (Lucco 1994), 1535 (Humfrey 1997, pp. 136-137; Syson 2008, pp.14 -31) e i primi anni Quaranta del Cinquecento (Béguin 1993, pp. 497-498).
Fabrizio Carinci
Bibliografia
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