Il dipinto è tradizionalmente riferito a Perin del Vaga (Pietro Bonaccorsi) e deriva da un’invenzione raffaellesca nota tramite alcuni disegni. Lo stretto rapporto con un quadro di stesso soggetto eseguito da Gian Francesco Penni ha indotto parte della critica a spostare l’attribuzione dell’opera a favore di quest’ultimo, anche se la vicinanza tra le due composizioni potrebbe derivare dall’utilizzo dello stesso modello da parte di entrambi gli artisti. Il dipinto è databile alla fine del secondo decennio del Cinquecento, all’indomani della conclusione dell’impresa decorativa delle Logge Vaticane.
Salvator Rosa cm. 108,5 x 87 x 7
Collezione Borghese, citato negli Inventario 1693, Stanza IV, n. 42; Inventario 1790, Stanza IV, n. 22; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 34, n. 32. Acquisto della Stato, 1902.
Il dipinto sembra corrispondere, eccetto che per le dimensioni, a quello descritto nell’inventario Borghese del 1693 come “un quadro di due palmi in circa in tavola col Bambino a sedere in terra sopra un Panno bianco e la Madonna in ginocchioni, che l’adora, San Gioseppe et un'altra figura in ginocchioni […]. Incerto”. Nel 1790 il quadro ritorna forse nella generica voce “Il Presepe, scuola di Raffaello”, mentre nell’elenco fidecommissario del 1833 è citato un dipinto descritto nello stesso modo ma con l’aggiunta delle misure e del supporto (“largo palmi 3, oncie 1; alto palmi 4, in Tavola”), probabilmente identificabile con quello in esame. Nella sua guida di Roma di poco successiva, Antonio Nibby (1841, p. 598) ricorda in Palazzo Borghese “un buon quadro di Pierino del Vaga, esprimente la Sacra famiglia”, riferito al dipinto tuttora in collezione (Tiberia, cit.) e la cui attribuzione a Perino viene ripresa da Morelli (1897, p. 138), il quale vi collega un disegno già assegnato a Luca Penni e conservato presso l’Albertina di Vienna. Il riferimento a Perin del Vaga è rifiutato da Venturi (1893, p. 213), che ritiene il dipinto di qualità scadente, e da Longhi (1928, p. 222), mentre è accolto da gran parte della critica successiva (Berenson 1909, II, p. 260, Labò 1940, pp. 34-37; Della Pergola 1959, p. 109, Tiberia 1984, pp. 117-118, Stefani 2000, p. 223, Herrmann Fiore 2006, p. 151).
In anni più recenti, alcune importanti occasioni espositive hanno fornito l’opportunità di riaprire la complessa questione attributiva intorno a questo quadro. In particolare, per il catalogo della mostra Il Rinascimento a Roma del 2011-2012 (Roma, Palazzo Sciarra), in cui l’opera è esposta con la tradizionale assegnazione a Perin del Vaga, Kristina Herrmann Fiore (2011, p. 281) ripercorre il dibattito critico e lascia aperta la questione auspicando nuove evidenze documentarie.
Successivamente, alla recentissima esposizione Raphael. Les dernières Années (Madrid, Prado; Parigi, Louvre) il quadro è presentato come opera di Gian Francesco Penni, attribuzione avanzata sulla scorta di una dettagliata disamina di modelli e confronti, primo fra tutti il tondo in tavola di stesso soggetto eseguito dall’artista e conservato presso la Badia di Cava dei Tirreni, con cui l’esemplare Borghese è in stretto rapporto (Raphael 2018, p. 222).
L’invenzione si deve con ogni probabilità a Raffaello, come suggerito da diversi disegni messi in relazione con l’opera (per cui si veda Herrmann Fiore 2011, cit.), tra cui di particolare interesse è quello conservato agli Uffizi rappresentante la composizione entro un profilo centinato. Questo elemento collega il disegno da una parte al dipinto Borghese, di formato rettangolare, e dall’altra al già citato tondo di stesso soggetto eseguito da Penni, suggerendo la comune derivazione delle due opere.
Rimane dunque aperto un doppio scenario, quello che vede i due artisti elaborare singolarmente in pittura la stessa composizione raffaellesca, studiata dal maestro in vari disegni, e quello che invece riporta le due opere ad un’unica mano, propendendo per l’assegnazione a Penni sulla scorta della sicura paternità del dipinto di Cava.
Un ulteriore elemento in rapporto con la prima ipotesi è costituito dalla ripresa di alcuni motivi della Natività Borghese in una più tarda interpretazione del tema eseguita da Perino, la cosiddetta Pala Basadonne (o Baciadonne) dipinta a metà degli anni Trenta del Cinquecento (Washington, National Gallery of Art), in cui ritornano il medesimo tipo facciale di Giuseppe, ripreso nel Padre Eterno, e la resa stilizzata degli alberi (Tiberia, cit.).
L’opera rappresenta nella parte destra la Vergine inginocchiata di fronte al Bambino, con una mano al petto in segno di adorazione e l’altra sulle spalle di San Giovannino, ritratto accanto a lei, come in atto di presentarlo. Sulla sinistra appare Giuseppe intento a sollevare l’infante adagiato per terra su di un panno bianco, probabile allusione alla sindone. Simbolico è anche il drago scolpito sul fregio marmoreo su cui è seduto Giuseppe, interpretabile in chiave cristiana come un riferimento al peccato ma anche, più semplicemente, come segno di quella cultura archeologizzante di stampo mitologico familiare a tutta la cerchia di collaboratori di Raffaello nelle Logge Vaticane (Tiberia, cit.). Al centro, come a voler dividere in due la composizione, si trova la rovina di una struttura architettonica antica, a cui è addossata una capanna con accanto il bue e l’asino; ai due lati delle costruzioni il paesaggio continua sullo sfondo.
Il dipinto rimanda alla Madonna delle rovine di Kingston Lacy, Dorset, attribuita alla scuola di Raffaello, in particolare per le vestigia architettoniche, di simile tipologia, e per il fregio marmoreo su cui, nel modello, è seduto il Bambino (Herrmann Fiore 2011, cit.; Raphael, cit., p. 226). L’inserimento di questi elementi, insieme al capitello poggiato a terra, testimonia la cultura antiquaria dell’artista ed il gusto per la suggestione del frammento antico.
La datazione tarda, intorno al 1540, proposta da Herrmann Fiore (2011, cit.) è ritenuta generalmente troppo avanzata, prediligendo una cronologia vicina alla decorazione delle Logge Vaticane, verso la fine degli anni Dieci (Freedberg 1961, p. 417; Tiberia, cit.; Raphael, cit., p. 224).
Pier Ludovico Puddu