Il dipinto, di provenienza ignota, non è attestato negli inventari Borghese più antichi e compare solo nell’elenco fidecommissario del 1833, come “maniera di Andrea del Sarto”. Il maestro influenzò fortemente l’opera di Domenico Puligo, suo collaboratore, che in questa tavola potrebbe aver ripreso una composizione sartesca in dipinto o disegno. L’attribuzione della tavola, ricondotta alla fase tarda della produzione di Puligo, si deve ad Adolfo Venturi.
Collezione Borghese, citato per la prima volta nell’Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 38, n. 2. Acquisto dello Stato, 1902.
In esposizione temporanea alla Galleria Nazionale d'Arte Antica per la mostra "Raffaello, Tiziano, Rubens. Capolavori dalla Galleria Borghese a Palazzo Barberini"
Il dipinto appartiene alla fase tarda della produzione di Domenico Ubaldini, pittore fiorentino il cui pseudonimo Puligo ha origine ignota.
Non si conosce la provenienza dell’opera, documentata nella collezione Borghese solo dal 1833, quando compare nell’inventario fidecommissario descritta come “Madonna, e Bambino, maniera di Andrea del Sarto, largo palmi 2, oncie 7; alto palmi 2 ½”.
Come per gli altri dipinti dell’artista presenti in collezione, il riferimento documentario presenta un rimando ad Andrea del Sarto, di cui Puligo fu collaboratore e con cui instaurò uno stretto rapporto, rimanendone fortemente influenzato; al maestro fiorentino deve l’uso dello sfumato tipico della sua produzione, che riprese in maniera personale, ben visibile anche in questa Sacra Famiglia con San Giovannino. Ad eccezione del profilo di San Giuseppe, i volti delle figure sono tutti sfumati, in particolare quello della Madonna. Quest’ultima, posta sulla sinistra, tiene in braccio il Bambino che si protende in direzione opposta, dove si trovano San Giuseppe e San Giovannino. I personaggi si dispongono su differenti piani, occupando la maggior parte della composizione in cui la figura della Madonna è preponderante, e alle loro spalle è accennato un paesaggio con un grande sperone roccioso.
È stata rilevata la presenza di diversi pentimenti in corrispondenza della mano sinistra della Vergine nell’atto di afferrare il Bambino (Gardner 1986, p. 214)), forse dovuti a quell’incertezza come disegnatore di cui racconta Vasari nella biografia dell’artista, a cui quest’ultimo avrebbe spesso sopperito proprio con il largo uso dello sfumato (G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, Firenze 1568, p. 104).
L’attribuzione dell’opera a Puligo è stata proposta per la prima volta da Venturi nel 1893 (p. 202) e poi confermata da Longhi (1928, p. 218) e Berenson (1936, p. 409). Della Pergola (1959, p. 49) la ritiene stilisticamente in linea con la produzione dell’artista, e avanza la possibilità che si tratti di una derivazione da un dipinto o un disegno di Andrea del Sarto. È noto infatti che Puligo fosse così vicino al maestro da poterne studiare direttamente i disegni e i lavori in corso d’opera (A. Nesi, Ubaldini, Domenico, detto il Puligo, in Dizionario Biografico degli Italiani, XCVII, p. 302), aspetto che aggiunge verosimiglianza a un tale scenario. Tuttavia quest’ipotesi, sostenuta anche dalla fisionomia e dall’espressione dei due infanti che rimandano ai modi sarteschi, non ha trovato finora un riscontro oggettivo (Gardner, cit.).
L’assegnazione a Puligo non è mai stata messa in discussione dalla critica ed è oggi generalmente accettata (si veda anche Stefani 2000, p. 288; Herrmann Fiore 2006, p. 141).
Pier Ludovico Puddu