Di ignota provenienza, la statua del dio, di grandezza leggermente inferiore al naturale, è in atto di procedere con la gamba sinistra avanzata, il braccio destro proteso stringeva la patera oggi mancante – attributo della divinità oracolare –, mentre con il sinistro regge il grifo – allusione alle regioni degli iperborei dove Apollo aveva espiato l’uccisione del Pitone di Delfi. Apollo veste un lungo chitone manicato ed è avvolto nel doppio mantello affibbiato sulla spalla destra, in un tessuto più pesante che scende con pieghe rigide sulle spalle, raggiunge a destra il ginocchio mentre a sinistra è rivoltato sulla spalla, lasciando scoperto il braccio. Sulla sinistra è il tripode che reca sulla base un rilievo con coppie di cigni in volo, allusive, come il grifo, al trasporto del dio dalla regione degli Iperborei; attorno al sostegno centrale modanato si attorce il serpente Pitone, ucciso a frecciate dal dio tre giorni dopo essere stato partorito. Il bacino del tripode è baccellato e decorato sull’orlo dal cervo e da due lire, allusione alla mitica contesa con Eracle per il possesso del tripode. La statua Borghese è una creazione composita di officina urbana di età adrianea che fonde elementi di varia derivazione in un’opera dal tono arcaizzante. La testa, non pertinente, è un’opera neoattica e rimanda a un tipo di Apollo noto da diverse repliche per lo più documentate in forma di erma, ispirata verosimilmente a una creazione attica degli anni finali del V secolo/inizio IV sec. a.C., nella quale è stato proposto di riconoscere l’Apollo Pythios del santuario all’Ilisso, ad Atene.
Collezione Borghese, citata per la prima volta da Nibby, 1832; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, C, p. 51, n. 147 (sala VI). Acquisto dello Stato, 1902.
La statua - di cui non è nota la provenienza - è menzionata per la prima volta nella guida del Nibby del 1832 in sala VI, che da questa prendeva il nome, suggestionandolo per la frontalità dell’impostazione, che attribuiva “agli artefici che non erano ancora giunti a dare alle statue quella verità di contegno e di massa, quell’anima, quasi, che lor diedero Mirone e Policleto… accurate ne sono le proporzioni, immobile il contegno, dure e troppo regolari le pieghe” (Nibby 1932, p. 107, n. 2). Nel 1888 venne trasferita in sala III, dove è attualmente collocata, al posto della statua del cd. Anacreonte che, insieme alle altre sculture provenienti da Monte Calvo, venne spostata al piano superiore in previsione della vendita.
La figura, di grandezza leggermente inferiore al naturale, è in atto di procedere con la gamba sinistra avanzata, il braccio destro proteso stringeva la patera oggi mancante – attributo della divinità oracolare –, mentre con il sinistro il dio regge il grifo – allusione alle regioni degli iperborei, dove Apollo aveva espiato l’uccisione del Pitone di Delfi. Apollo veste un lungo chitone manicato ed è avvolto nel doppio mantello affibbiato sulla spalla destra, in un tessuto più pesante che scende con pieghe rigide sulle spalle, raggiunge a destra il ginocchio mentre a sinistra è rivoltato sulla spalla, lasciando scoperto il braccio. Nella parte inferiore il chitone aderisce al corpo, rivelando le forme anatomiche, con rigide pieghe verticali tra le gambe e lateralmente; il dio calza sandali con bassa suola. Sulla sinistra è il tripode che reca sulla base a rilievo coppie di cigni in volo, allusive, come il grifo, al trasporto del dio dalla regione degli Iperborei; attorno al sostegno centrale modanato si attorce il serpente, Pitone, noto a Delfi per averne a lungo terrorizzato gli abitanti, imperversando indistintamente su animali e persone. Apollo lo uccise a frecciate tre giorni dopo essere stato partorito da Latona. Il mostruoso serpente figlio di Gea aveva l’abilità di emettere oracoli. Secondo Apollodoro (Biblioteca 1,1,1 – 1,1,3; 1,4,1), Pitone era soltanto il custode dell’oracolo di Delfi, dove i responsi erano pronunciati dalla titanide Temi; avendo però tentato di impedire ad Apollo di accedervi, fu ucciso dal dio, che si impossessò del santuario e fondò i Giochi pitici.
Il bacino del tripode è baccellato e decorato sull’orlo dal cervo e da due lire, allusione alla mitica contesa con Eracle per il possesso del tripode.
Fu per primo il Bruckmann a evidenziare la discrepanza tra la caduta delle pieghe del mantello, che riflettono la maniera attica della seconda metà del V sec. a.C. e il panneggio aderente e rigido del chitone, che suggerisce un modello arcaico, ipotizzando che si trattasse di un’opera romana ispirata a una scultura arcaizzante di IV-II sec. a.C., oppure di opera neoattica o di una creazione romana ispirata a un’opera neoattica (Brunn et alii 1898, n. 657). Moreno, riprendendo un’ipotesi già formulata da Borrelli Vlad (1949), suggerisce che la statua Borghese sia una creazione composita che fonde elementi di varia derivazione in un’opera dal tono arcaizzante, in cui elementi ionici e classici sono espressi con quel colorito arcaizzante e il gusto ornamentale virtuosistico tipico della maniera rodia di fine II sec. a.C. (Moreno, Viacava 2003).
Il tripode trova stretti confronti con una statua di Apollo citaredo al Museo del Bardo, Tunisi (Inv. n. C939), secondo una iconografia attestata anche dal tondo adrianeo reimpiegato nell’arco di Costantino che ebbe grande fortuna, si veda anche il sarcofago con Apollo e Marsia, nella collezione Torlonia, in cui appare anche il grifo (Visconti 1884-85, pp. 295-298, n. 423, tav. CVII). La rigidità e spigolosità del panneggio e una certa levigatezza delle superficie suggeriscono l’attribuzione ad una officina urbana di età adrianea.
La testa, non pertinente, è di accurata lavorazione: l’acconciatura con scriminatura centrale (e boccoli moderni) rimanda al tipo di Apollo detto “Ariadne” noto da diverse repliche per lo più documentate in forma di erma, il cui corpo, dall’aspetto del citaredo, coperto dal lungo chitone, è conservato da un più ristretto numero di versioni non esattamente coincidenti nei dettagli. Alla base delle copie romane c’è verosimilmente una creazione attica - forse un acrolito - degli anni finali del V secolo/inizio IV sec. a.C., nella quale è stato proposto di riconoscere l’Apollo Pythios del santuario all’Ilisso visto da Pausania, la cui paternità è variamente attribuita ad Agorakritos, Kephisodotos, Scopas o Alkamenes (vd. Gasparri 1976; Palagia 1984, pp. 204 s., n. 146; Vorster 1993, pp. 139 ss.). Tra le derivazioni dall’archetipo, la testa Borghese si può collocare fra quelle di tipo B, rielaborate nel periodo tardo repubblicano in ambiente neoattico.
Jessica Clementi