La scultura muliebre, variante della cosiddetta “Grande Ercolanese” (il prototipo fu rinvenuto nel Teatro di Ercolano), rappresenta una matrona romana vestita di una lunga tunica e avvolta da un mantello, il braccio sinistro è disteso lungo il fianco, mentre il destro piegato al gomito è appena discosto dal corpo, la mano destra trattiene un lembo del mantello; la testa è antica ma probabilmente non pertinente. Il tipo ebbe una fortuna eccezionale per un lungo periodo, tanto da essere conosciuta in numerosi esemplari nel mondo romano, tanto nell’arte sepolcrale quanto in quella onoraria quale perfetta sintesi tra il classicismo delle forme e i valori morali di onore, decoro e pudore espressi dalla postura castigata e dall’ordinata disposizione del panneggio.
Esposta nell’allora “sala III” in occasione dell’allestimento della nuova collezione nel Casino, fra 1905-1915 venne spostata su una delle grandi finestre incorniciate da edicole della Terrazza della facciata principale.
Collezione Borghese (ante 1826); Inventario Fidecommissario Borghese 1833, C, p. 44, n. 38 (sala III). Acquisto dello Stato, 1902.
Nel 1826 Evasio Gozzani, Ministro di Casa Borghese preposto all’individuazione delle sculture da recuperare per l’allestimento della nuova collezione nel Casino di Villa Pinciana, descrive la scultura come “Statua a capo di Viale del Tempio di Diana proporzionata al vero, di ottimo stile, mancante del naso, di tutto l’avanti braccio destro, porzione della mano sinistra con drapperia” (Moreno 1997). Affidata a Massimiliano Laboureur o ad Antonio d’Este per il restauro come Cerere, per qualche tempo la scultura venne esposta nella Sala I, in suo onore denominata “Sala della Bella Cerere”. Successivamente spostata nella Sala III, tra 1905 e 1915 la statua venne esposta, insieme ad altre, a per decorare le grandi finestre della Terrazza incorniciate da edicole della facciata principale del casino Borghese (Petrucci 2014).
La scultura muliebre, diversamente identificata con una “Musa” o “Cerere”, è più opportunamente classificabile come una statua con originaria funzione iconica con testa antica che ripropone una variante della cosiddetta “Grande Ercolanese”, tipo iconografico utilizzato per statue ritratto e molto amato tanto nell’arte sepolcrale quanto in quella onoraria romana (da ultimo Alexandridis 2004, pp. 238-243 n. 2.2.12; Daehner 2007; Fejfer 2008, pp. 335-338; Alexandridis 2010, pp. 263- 275 fig. 20.3; Dillon 2010, pp. 82–86; Trimble 2011; Davies 2018, pp. 175–185).
La maestosa figura stante è rappresentata leggermente volta alla sua sinistra; gravita sulla gamba destra mentre la sinistra è spostata di lato. Al di sopra del lungo chitone manicato, percorso da pieghe verticali, indossa un himation che scende sotto le ginocchia, avvolgendo anche le braccia. Il braccio sinistro è disteso lungo il fianco, mentre il destro piegato al gomito è appena discosto dal corpo; la mano destra trattiene un lembo del mantello che scende dalla spalla sinistra: le pieghe si stirano a formare una linea obliqua, attraversano in diagonale il torso e ricadono fino a toccare il polso sinistro. La testa, dall’impianto massiccio, è leggermente innalzata e reclinata a sinistra. L’ovale pieno, mostra fronte bassa triangolare, naso largo e mento tondeggiante. Gli occhi grandi e allungati sono incassati sotto ampie arcate sopraccigliari; la bocca è piccola, con labbra carnose semiaperte. Una scriminatura centrale divide in due bande i capelli, che coprono in parte gli orecchi e si ricongiungono in una crocchia sulla nuca, secondo una acconciatura ispirata genericamente a modelli del V o IV sec. a.C.
La ponderazione della figura e il motivo a triangolo determinato dalla ricaduta delle pieghe del mantello consentono di riconoscere il modello nel tipo convenzionalmente noto come “Grande Ercolanese” che, insieme alla “Piccola Ercolanese”, deve il nome alle statue eponime rinvenute nella frons scenae del teatro di Ercolano (1706-1713) oggi conservate all’Albertinum di Dresda, di cui si discutono identità, cronologia e paternità del prototipo. Il considerevole numero di repliche (almeno 202 per il tipo della “Grande Ercolanese”) ha favorito proposte di attribuzione a famosi scultori – o alla loro cerchia – quali Prassitele, Lisippo o un artista di ambiente peloponnesiaco, mentre alcuni studiosi collocano la “Piccola Ercolanese” in età proto-ellenistica o entrambe all’inizio del III sec. a.C. in ambiente microasiatico. Altre ipotesi hanno individuato nella Grande e Piccola Ercolanese la coppia divina di Demetra e Kore, giustificando così le differenze di statura e abbigliamento ricorrenti nei due tipi, oltre alla presenza di attributi quali il papavero e la spiga di grano in alcune repliche della Grande Ercolanese. Recentemente si è diffusamente contrapposta una interpretazione “laica” secondo la quale i due tipi avrebbero una genesi artistica indipendente e cronologicamente distante, ideati entrambi per statue ritratto funerarie o onorarie di sacerdotesse, cittadine di status elevato, poetesse o eroine. La perfetta sintesi tra il classicismo delle forme e i valori morali di honos, decor e pudicitia espressi dalla postura castigata e dall’ordinata disposizione del panneggio, infatti, danno ragione dell’ampio gradimento dei tipi nel mondo romano per statue iconiche di personaggi pubblici ed esponenti delle élites, la cui produzione si concentra fra I sec. a.C. e III sec. d.C.
Elementi stilistici e tecnici permettono di collocare l’esemplare Borghese genericamente nel II sec. d.C.
Jessica Clementi