Il quadro rappresenta uno stile leggermente più tardo rispetto alle altre opere dello Scarsellino presenti in Galleria. La struttura compositiva del rame, equamente suddiviso in una zona superiore dominata da colonnati incombenti e una inferiore affollata di figure avviluppate e contorte, rivela l’accostamento dello Scarsellino al nuovo dettato classicista promosso dai Carracci, attraverso la rielaborazione di un tema magistralmente trattato da Guido Reni. Tale contesto non risulterà tuttavia particolarmente congeniale alle caratteristiche espressive del pittore, che realizzerà le sue opere migliori nella dimensione lirica del mito e della favola.
Collezione Borghese, Inv. 1693, Stanza III, n. 143; Inventario 1790, Stanza IV, n. 53; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 27. Acquisto dello Stato, 1902.
Questo dipinto di Scarsellino è il prodotto finale di una interessante riflessione figurativa realizzata dal pittore sul tema della Strage degli Innocenti, vista la presenza di un analogo rame in collezione privata in cui è possibile riconoscere il bozzetto dell’opera della collezione Borghese (Novelli 2008, p. 322, cat. 212).
La prima citazione inventariale del piccolo quadro risale al 1693, dove si legge: «quadro in rame con la strage degli Innocenti del n. 257 cornice dorata di Scarsellin di Ferrara». Tuttavia, la paternità dell’opera non viene riconosciuta negli inventari successivi, che la restituiscono sia nel 1790 sia nell’inventario del Fidecommisso del 1833 come di mano di Paolo Veronese, collegandosi dunque parzialmente alla vicenda attributiva di un altro dipinto di Ippolito, la Cena in casa di Simone (inv. 169). Il riferimento a Veronese e alla sua cultura non è affatto sorprendente per un’opera di Ippolito Scarsella, visto che anche nella sua biografia l’abate centese Girolamo Baruffaldi (1675-1753/1755) gli riconosce proprio l’appellativo di «Paolo de’ Ferraresi» per le composizioni conviviali di ampio respiro contenute entro uno spazio architettonico classicheggiante.
La scena biblica è inserita dentro una semplice architettura romana, un porticato composto da colonne a fusto liscio del quale lo spettatore ne ha una vista parziale, mentre grazie ad un gioco di orizzonte ribassato è possibile vedere in lontananza le rovine di un’antica città tra l’aria scura e nebbiosa di quella che sembra un’alba temporalesca. In primo piano è presente un groviglio di corpi anatomicamente descritti in modo minuzioso. L’intreccio della lotta fisica, che oscilla tra i corpi dei soldati nel massimo della loro tensione muscolare, i volti disperati e i gesti esasperati delle madri e i neonati esanimi appena uccisi, ricorda quelle che sicuramente lo Scarsellino ha potuto ammirare e studiare sui sarcofagi romani raffiguranti centauromachie, amazzonomachie o altre lotte mitiche.
In questa composizione è ravvisabile l’assimilazione del tema della Strage degli innocenti attraverso la celebre incisione che Marcantonio Raimondi (1480 circa-1534) realizza su disegno di Raffaello (Herrmann Fiore 2002; Novelli 2008): mentre nell’opera cinquecentesca la concitazione e l’angoscia delle donne è contenuta nella compostezza dei loro corpi scultorei e dell’architettura organizzata in modo classicamente razionale, nel dipinto di Scarsellino vi è un drastico cambiamento dell’assetto narrativo verso una dimensione di tragica teatralità e di ricerca del vero nella riproduzione delle espressioni umane, processo già avviato nell’ambito della pittura ferrarese da artisti come Ludovico Mazzolino (1480 circa-1658), autore di un’opera di medesimo soggetto oggi presso la Galleria Doria Pamphilj di Roma (inv. FC 248) in cui sono visibili proprio questi primi ed interessanti tentativi.
La datazione entro il primo decennio del Seicento, già proposta da Berenson (1968) e ribadita da Herrmann Fiore (2002), è possibile anche grazie all’osservazione del forte influsso caravaggesco, che traspare dalla composizione nell’alternanza di spazi saturi e di grandi vuoti che conferisce alla composizione una forte impronta chiaroscurale, e dell’innovazione tecnica rappresentata dall’utilizzo di un supporto come il rame, in uso a inizio Seicento soprattutto per le opere di piccolo e medio formato realizzate da pittori fiamminghi in soggiorno a Roma come Adam Elsheimer (1578-1610).
Lara Scanu