Il dipinto, identificato con quello eseguito per la contessa Santafiora di Sala Baganza, passò entro il 1650 nella raccolta Borghese, dove è menzionato con l'esatta attribuzione a Raffaellino da Reggio. L'opera, che illustra l'episodio biblico di Tobiolo guidato dall'angelo nel suo cammino di redenzione, appartiene alla produzione dell'artista prossima agli anni Settanta del Cinquecento, periodo in cui si riscontra una chiara influenza della pittura fiamminga, evidente sia nelle modulazioni della gamma cromatica, sia nell'apertura paesaggistica dello sfondo.
Salvator Rosa (cm 125,2 x 88,3 x 10)
Sala Baganza, famiglia Santafiora, 1616 (Fantini 1616; Faldi 1951); Roma, collezione Borghese, 1650 (Manilli 1650); Inventario 1693, Stanza VII, n. 14; Inventario 1790, Stanza I, n. 21; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 40. Acquisto dello Stato, 1902.
Un quadro con analogo soggetto dipinto da Raffaellino da Reggio è segnalato nel 1616 da Bonifacio Fantini ('A Sala, luogo del Parmigiano, si vedono due Quadri fatti per la Contessa Sanfiore (sic) [...] nell'altro Raffaelle, e Tobia: opera così rara, che poi fu posta alle stampe pel modo, che tiene nel mostrare la meraviglia del Giovine Tobia, e la maestà dell'Angelo'; Fantini 1616) presso la raccolta della nobile famiglia Santafiora di Sala Baganza, identificato da Italo Faldi (1951) con la tavola in esame, documentata in collezione Borghese a partire dal 1650 (Manilli 1650). Tale pista, seguita da tutta la critica, trova la sua conferma dal momento che diversi dipinti, tra cui la Santa Caterina del Louvre, passarono dalla ricca quadreria Santafiora alla preziosa raccolta capitolina di Scipione Borghese (Urlichs 1870; Della Pergola 1955).
Da sempre attribuito al pittore reggiano (Manilli 1650), la sua paternità non è mai stata messa in dubbio dagli studiosi, supportata da un disegno segnalato da Adolfo Venturi (1893) presso il Gabinetto degli Uffizi di Firenze (n. 2014); e da un'incisione eseguita da Agostino Carracci (Bartsch 1920), già citata da Carlo Cesare Malvasia nella sua Felsina pittrice (Malvasia 1678) e debitamente pubblicata da Faldi che ne rinvenne un esemplare al British Museum.
Il soggetto, tratto dalla Bibbia (Tobia 5, 4-6), raffigura Tobiolo in compagnia dell'arcangelo Gabriele, ritratto mentre tiene un grosso pesce tra le mani, il cui fiele fu spalmato dal giovane sugli occhi del padre, guarendolo dalla cecità. Variamente datato dalla critica, il quadro è stato collocato da Luisa Collobi (1938) tra le ultime opere di Raffaellino, realizzato a detta della studiosa poco prima della decorazione della cappella a sinistra di San Silvestro al Quirinale; ipotesi fortemente respinta da Faldi (1951) che al contrario lesse la tavola come una delle prime prove eseguite dall'emiliano intorno al 1570 quando, in compagnia dell'architetto Francesco Capriani, l'artista giunse a Roma, ricoprendo in breve tempo un ruolo cruciale nel contesto artistico capitolino (cfr. De Mieri 2012). Seguendo tale pista, nel 1995 Fiorella Sricchia Santoro ha fissato l'esecuzione della tavola al 1573 circa, ritenendola prossima alle opere di Jacopo Zanguidi il Bertoja visibili presso l'Oratorio del Gonfalone a Roma e alle pitture del reggiano a Caprarola. In effetti, tale datazione ben collima con lo stile dell'artista prossimo a questi anni quando la sua produzione mostra una certa apertura alle influenze della pittura fiamminga, evidenti sia nelle modulazioni della gamma cromatica, sia nell'apertura paesaggistica dello sfondo, testimonianza secondo l'Hauser (1965) della combinazione delle sinuosità manieriste con le forme preziose sviluppate nella cerchia degli Zuccari.
Antonio Iommelli