Venere che benda Amore
(Pieve di Cadore 1488-90 - Venezia 1576)
Con buona probabilità il dipinto entrò in collezione Borghese nel 1608, ceduto dal cardinale Paolo Emilio Sfondrati a Scipione Borghese. Sconosciuta rimane la committenza dell’opera, così come di difficile interpretazione appare il soggetto, sulla cui lettura la critica ha lungamente dibattuto.
La splendida figura femminile, seduta sulla sinistra del dipinto, è raffigurata nell’atto di bendare con un gesto deciso il putto alato sul suo grembo, mentre alle sue spalle un secondo amorino osserva la scena con aria assorta. Sulla destra, giungono due donne - con buona probabilità le ninfe Dori e Armilla - recando un arco e una faretra.
Secondo la critica, la tela appartiene alla fase avanzata dell’artista, caratterizzata da una particolare stesura cromatica, resa con tocchi di pennello densi di vibranti effetti luministici.
Scheda tecnica
Inventario
Posizione
Datazione
Tipologia
Periodo
Materia / Tecnica
Misure
Cornice
Cornice dorata con conchiglie e teste di amorini dipinte realizzata nel 1613 dal doratore Annibale Durante.
Provenienza
(?) Roma, cardinale Paolo Emilio Sfondrati, 1608 (Della Pergola 1955); Roma, cardinale Scipione Borghese, 1613 (Francucci 1613); Inv, 1700, Stanza V, n. 43; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 9, n. 35. Acquisto dello Stato, 1902.
Mostre
- 1935 Venezia, Cà Pesaro;
- 1980 Tokyo, The National Museum of Western Art;
- 1982 Roma, Museo Nazionale di Palazzo Venezia;
- 1985 Roma, Museo Nazionale di Palazzo Venezia;
- 1986 San Pietroburgo, Hermitage;
- 1990 Venezia, Palazzo Ducale;
- 1990 Washington, National Gallery of Art;
- 1993 Parigi, Galeries Nationales d’Exposition du Grand Palais;
- 1995 Roma, Palazzo delle Esposizioni;
- 2003 Madrid, Museo Nacional del Prado;
- 2004, Oslo, Nasjonal Galleriet;
- 2006 Gerusalemme, Museo Israel;
- 2007 Mosca, The State Tretjakov Gallery
- 2007-2008 Vienna, Kunsthistorisches Museum;
- 2008 Venezia, Gallerie dell’Accademia;
- 2008-2009 New York, The Metropolitan Museum of Art;
- 2013 Mosca, Museo Puskin;
- 2013 Roma, Scuderie del Quirinale;
- 2021-2022 Vienna, Kunsthistorisches Museum.
Conservazione e Diagnostica
- 1920-1921 Tito Venturini Papari;
- 1992-1993 Annamaria Brignardello (indagini diagnostiche; asportazione vernice e ridipinture; reintegrazioni pittoriche, verniciatura).
Opera attualmente non espostaIn esposizione temporanea alla Galleria Nazionale d'Arte Antica per la mostra "Raffaello, Tiziano, Rubens. Capolavori dalla Galleria Borghese a Palazzo Barberini"
Scheda
Il dipinto è citato per la prima volta nel 1613 nel poema di Scipione Francucci dedicato alle opere che componevano la raccolta di Scipione Borghese, cardinal nipote da otto anni, collezionista a dir poco appassionato di sculture antiche e moderne, di pittura contemporanea e di capolavori cinquecenteschi. Francucci descrive il soggetto come “Venere che benda Amore” elencando anche i comprimari: un secondo cupido e le due ninfe Dori e Armilla, una con le frecce e l’altra con l’arco. La scena risulta da sempre di difficile interpretazione, tanto da acquisire titoli diversi negli inventari successivi della villa, dove al principio del 1620 la vide Antoon van Dyck, come testimoniato da un disegno del pittore oggi a Chatsworth. L’identificazione delle figure oscilla infatti fra Venere che benda Amore in presenza delle sue ninfe, e una raffigurazione delle tre Grazie con i cupidi.
Nel Novecento interpretazioni più complesse si sono basate sul reperimento di fonti letterarie; Hans Tietze (1936) propose le Metamorfosi di Apuleio, in cui Venere punisce Amore per essersi innamorato di Psiche requisendogli le armi. Erwin Panofsky (1939; 1969), invece, formulò una interpretazione neoplatonica, identificando i due cupidi, Eros e Anteros, con l’Amore passionale e l’Amore divino che però non è cieco ma in grado di contemplare il vero Amore, una differenza non formulata chiaramente nelle fonti antiche ma codificata ampiamente nel testo di Vincenzo Cartari Le imagini degli dei degli antichi. Nei suoi studi del 1939, parzialmente ritoccati nell’edizione del 1969, lo studioso pensava a una allegoria dell’amore coniugale, basandosi sull’identificazione delle due figure femminili come piacere e castità.
Le letture successive hanno parzialmente incrinato queste interpretazioni poiché, osservando attentamente le espressioni dei personaggi, sembra che le due donne stiano per consegnare le armi a Cupido invece che levargliele; mentre l’Amore in grado di osservare, appoggiato alla spalla della madre, appare quasi preoccupato invece che sicuro della sua superiorità al fratello bendato. Non si può quindi escludere che la scena rappresenti l’educazione di Cupido, che qualche volta appare anche in cataloghi recenti come titolo alternativo a quello tradizionale; in effetti sembra proprio che Venere intenda lasciare che l’Amore cieco compia le sue prime imprese, colpendo i mortali con le sue frecce e disseminando casualmente innamoramento e passione.
Come se non bastasse, le radiografie effettuate nel 1992-1993 e pubblicate nel 1995 hanno evidenziato considerevoli ripensamenti: la testa di Venere ha cambiato quasi totalmente inclinazione, volgendosi verso il bambino pensieroso; ma soprattutto una terza figura è stata eliminata. Tale personaggio è stato identificato da Kristina Hermann Fiore (1995) con la terza delle Grazie, permettendo alla studiosa di sostenere l’ipotesi di una prima idea tizianesca, basata sulla descrizione di una pittura antica e celebrata come Venere fra le Grazie e i Cupidi, che Tiziano avrebbe ripreso in un “paragone” con le fonti letterarie dell’eccellenza della pittura. Una nuova campagna di indagini, con i moderni mezzi diagnostici, potrebbe apportare ulteriori elementi di considerevole importanza.
Con buona probabilità, la lettura del soggetto sarebbe molto più chiara se si riuscisse a individuare il contesto della commissione che purtroppo ancora sfugge. Miguel Falomir (2003) ha recuperato la preziosa citazione di un soggetto simile nell’inventario di Antonio Pérez, redatto a Madrid nel 1585. Non c’è alcuna certezza che il quadro fosse destinato a Pérez, sebbene si debba sottolineare come questi possedesse altri originali di Tiziano. Inoltre, non è chiaro come il dipinto possa essere passato dalla Spagna a Roma, e in particolare nella collezione di Paolo Emilio Sfondrati, nipote di Gregorio XIV, che nel 1608 avrebbe ceduto la tela a Scipione Borghese (Della Pergola 1955).
Nonostante non si conoscano l’origine e l’esatta data di esecuzione – che si aggira probabilmente fra il 1560 e il 1565 – il quadro ci riporta al clima delle “poesie” tizianesche, a quel processo di ispirazione dall’antico che qui, negli anni estremi dell’artista, dà luogo a immagini sgretolate e sognanti. La composizione è costruita infatti con grande maestria: al centro del quadro non appare nessuno dei protagonisti della scena, ma un’apertura verso un paesaggio al tramonto, con il cielo colorato di nuvole rosa e arancioni sopra le montagne azzurrine. In un accordo cromatico sofisticato, il rosa e l’azzurro si ritrovano sulle piccole ali del Cupido bendato e da un lato nel blu del panneggio di Venere, opposto al rosso cremisi dell’ancella con le frecce. I bianchi delle vesti e gli incarnati sono percorsi dalla luce mentre i delicati passaggi alle ombre colorate contribuiscono a rendere meno definiti i contorni delle figure, affidati all’occhio dello spettatore e alle sue capacità di afferrarle.
Tra le copie di grande qualità di questo dipinto si segnala la tela conservata a Madrid (Museo del Prado, inv. P003865) che, secondo Harold Wethey (1975), fu comprata a Roma da alcuni agenti diplomatici, entrando in seguito nelle collezioni reali spagnole. Con buona probabilità, tale replica fu eseguita nell’Urbe alla vista di quella Borghese intorno ai primi decenni del XVII secolo. Un’opera, simile alla composizione Borghese è inoltre esposta alla National Gallery di Washington (cat. X-5), eseguita intorno al 1570 da un anonimo discepolo del maestro cadorino. Tale dipinto mostra sulla destra, alle spalle della divinità, una donna raffigurata nell’atto di sollevare una cesta che verosimilmente doveva apparire anche nella tela Borghese, come è emerso dalle indagini radiografiche.
Francesca Cappelletti e Antonio Iommelli
Multimedia
Maria Giovanna Sarti - Venere che benda Amore by Tiziano
Bibliografia
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